06 maggio 2014 10:00

Giuseppe Verdi ha ottant’anni quando manda in scena il Falstaff, la sua prima opera comica. Michelangelo Buonarroti lavora alla Pietà Rondanini quando ne ha quasi ottantanove. Ma il grande vecchio che preferisco – infatti lo ricordo ogni volta che posso – è Michel Eugène Chevreul, chimico francese, studioso del colore e scopritore della margarina, che a novant’anni decide di orientare altrove i propri interessi, fonda una disciplina del tutto nuova, la gerontologia, e pubblica il suo ultimo libro a centodue anni.

Primo punto da segnalare: la vecchiaia non è, e non è mai stata, poco fertile. Essere giovani è una precondizione per ottenere risultati importanti in alcune discipline che, come la matematica, gli scacchi o la fisica teorica, chiedono sforzi mentali intensivi e un approccio speculativo. Ma da vecchi si possono ottenere risultati brillanti nelle discipline che richiedono l’integrazione di competenze diverse e una dose di esperienza del mondo, e che hanno una componente empirica: dalla psicologia alla pittura, del cinema alla narrativa, alla filosofia.

Lo psicologo Marcello Cesa-Bianchi, in La creatività scientifica. Il processo che cambia il mondo racconta che, passati gli ottantacinque anni, un Claude Monet in pesanti difficoltà con la vista dipinge con l’anima, la memoria e l’intuizione producendo, ancora dopo l’infinita serie delle Ninfee, quadri sorprendenti come La casa fra le rose.

Anche Tiziano continua a dipingere quando è ultranovantenne. Il Vasari racconta l’evoluzione delle sue opere: “Le prime sono condotte con una finezza e una diligenza incredibili, e di essere vedute da presso e da lontano; le ultime condotte da colpi, tirate via di grosso e con macchie… e di lontano appariscono perfette”. Tiziano ha un tale dominio della propria arte che può trascurare i dettagli e superare la tecnica.

Secondo punto: l’esperienza aiuta a reinventarsi e a raggiungere sintesi più audaci. Forse, a correre rischi più grandi, confrontandosi con se stessi, confidando nel proprio saper fare, sfidando i sensi indeboliti, andando oltre e, perché no, fregandosene.

Passiamo ai protagonisti del nostro tempo: il regista portoghese Manoel de Oliveira presenta il suo film Gebo e l’ombra a Venezia, a centoquattro anni. Uno dei più acuti e visionari interpreti della modernità e della postmodernità è il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman: ha ottantotto anni. Uno dei polemisti più acuti, rigorosi e vigorosi è il linguista americano Noam Chomsky (ottantacinque): ad aprile era a Tokyo per una serie di conferenze. E Andrea Camilleri (ottantanove) continua a produrre best seller.

Commenta Cesa-Bianchi (che, per inciso, ora ha ottantotto anni e si interessa di psicogerontologia): “Da vecchi e longevi è sempre possibile imparare, fare nuove esperienze, conoscere qualcosa di sé che per tutta la vita era sfuggito, dare un senso diverso ai giorni che si vivono”. E, altrove, ricorda che “la creatività costituisce il fattore più importante per contribuire a un invecchiamento positivo”.

Terzo punto, interessante per gli juniores che per caso leggessero questo articolo: con il prolungarsi della vita media, la vera sfida non è tanto diventare vecchi (ormai riuscirci non è così difficile, specie da italiani, visto che per longevità siamo secondi solo alla Svizzera, insieme al Giappone) ma invecchiare restando vivaci di testa e produttivi. Per prepararsi una buona vecchiaia, creativa e fertile, bisogna cominciare da giovani. Ma come si fa?

Lo dice Oliver Sacks, altro grande ottantenne, in un testo davvero affascinante (questo è un esplicito invito ad andarlo a leggere). Il cervello “ha una misteriosa capacità di apprendere, adattarsi e svilupparsi”. E può sviluppare anche in breve tempo strategie e capacità nuove. Bisogna usarlo, però, e continuare a farlo.

Ed eccoci a un quarto punto: le élite culturali trovano, nella propria formazione, strumenti migliori per invecchiare di più e meglio. Come scrive il Sole 24 Ore chi ha studiato di più vive di più. Ma alla formazione degli anni giovanili va aggiunta la formazione permanente, quella che continua per l’intero arco della vita.

Sono notevoli, in questo senso, i risultati ottenuti da un amplissimo studio americano, il Longevity project: restare impegnati dopo i 65-70 anni e continuare a darsi obiettivi da raggiungere allunga la vita. E, ovviamente, la rende più interessante da vivere.

Invece, almeno in termini di longevità, serve a poco rilassarsi, essere ipersportivi, coltivare una fede. Serve parzialmente essere sposati (gli uomini ne traggono vantaggio, le donne no. E su questo dettaglio ci sarebbe da ragionare).

Aiuto! Tutto ciò significa che, nel momento in cui i vecchi restano attivi, ci sarà ancor meno spazio per i giovani? La risposta è sì, se restiamo intrappolati in una logica semplicistica di conflitto generazionale e se diamo una lettura gerontofobica a una tendenza peraltro difficile da invertire, a meno che non si vogliano ammazzare i vecchi già da giovani, per esempio con una guerra.

La risposta è no, se prima di tutto promuoviamo la meritocrazia, che prescinde dal dato anagrafico, e se combattiamo con forza le rendite di posizione. E la risposta è no se accettiamo la sfida creativa costituita dall’immaginare una società e un sistema produttivo che sappiano integrare l’energia dei giovani e l’esperienza dei vecchi.

Intanto, il primo mito da sfatare è quello che fa coincidere pensionamenti anticipati e incremento dell’occupazione giovanile: il mercato del lavoro non è un cinema in cui ogni spettatore che si alza libera una poltrona (questa si chiama lump of labor fallacy) e le cose sono meno automatiche e più complesse di così.

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