23 novembre 2012 14:03

Stamattina, mentre vedevo le faccette dei miei contatti su Facebook sparire una alla volta per lasciare spazio a tanti quadratini rosa, mi sono scoperto infastidito. E lo ammetto con una certa difficoltà, perché la foto profilo rosa è un’iniziativa virale nata con le migliori intenzioni: denunciare il suicidio di un ragazzo romano, di 15 anni, che sarebbe stato indotto a togliersi la vita dalla pesante discriminazione omofoba subita a scuola e su internet.

Eppure penso che trasformare una notizia o una foto in uno slogan sia semplicistico. “Oggi il rosa è il colore della rabbia”, è la frase che scorre a ripetizione sulla mia bacheca di facebook. Perché a quanto pare gli piaceva vestirsi di rosa. Ma a parte questo non sappiamo ancora quasi nulla su cosa sia successo nella vita di quel povero adolescente.

La stessa reazione l’ho avuta per l’ormai famosa foto del papà che si mette la gonna per solidarietà verso il figlio o perfino per la lettera a Obama scritta dalla bambina con due papà. In teoria sono cose che avrebbero dovuto toccarmi da vicino. Eppure ogni volta che qualcuno mi ha chiesto cosa ne pensassi (e me l’hanno chiesto in molti) mi ritrovavo con la mente completamente sgombra di idee. Non sapevo che dire.

La realtà è che non avevo niente da dire. Io quel papà che si mette la gonna non lo conosco. Ho letto due, tre dichiarazioni che ha fatto alla stampa, ho visto la foto di lui col gonnone rosso, ma non ho idea di cosa gli passi per la testa, non so se ha fatto bene o male, e neanche m’importa molto, perché sono affari suoi. Invece di scrivere fiumi di parole su questo signore a me sconosciuto (e che immagino abbia semplicemente fatto quello che riteneva giusto per il figlio) mi sono letto tutto d’un fiato l’articolo “Che male c’è se un bambino si veste da femmina?” pubblicato da Internazionale qualche settimana fa.

Stessa cosa per la lettera della bambina. Quanti anni ha questa bambina? E i suoi genitori stanno facendo tutto il possibile per non farle subire discriminazioni a scuola? La lettera l’avrà scritta tutta da sola? Non lo so. E francamente, non m’interessa. Io voglio leggere e semmai diffondere articoli, non poster promozionali. In questi giorni sulla stampa francese si consuma un dibattito intensissimo sull’omogenitorialità e quasi tutti gli articoli che leggo mi sembrano più interessanti della letterina al presidente.

In America lo chiamano

clicktivism: l’uso dei social media per promuovere una causa. Ma spero che nessuno si illuda che mettere un quadrato rosa al posto della foto profilo o comunicare uno status indignato a poche centinaia di conoscenti preselezionati, e probabilmente già allineati, abbia qualche utilità. Anzi, si corre il rischio che qualcuno si senta appagato dalla sua pubblica manifestazione di rabbia e si dimentichi che il vero attivismo sarebbe prendere la porta e andare nel liceo più vicino a parlare con la preside. O con le professoresse o con la bidella, insomma, con chiunque non sia nella cerchia di amici con cui ci palleggiamo foto e link per tutto il giorno.

Anna Paola Concia ha fatto proprio questo. Invece di esprimere la sua rabbia è andata a informarsi con i compagni di scuola e gli insegnanti del ragazzo romano che si è tolto la vita. E ha detto di aver trovato dei ragazzi sconvolti e un ambiente che non sembrava affatto ostile alla diversità. Non dico che abbia interrogato gli studenti uno per uno e che abbia una visione chiara dell’accaduto, però almeno ha spento il computer ed è andata a vedere con i suoi occhi.

Finché l’indagine che è stata aperta non riesce a individuare dei responsabili di istigazione al suicidio, la campagna del quadratino rosa si basa sul nulla. O su notizie non confermate. Il problema è che, quando ne sapremo qualcosa di più, sarà già in atto qualche altra iniziativa virale della durata di tre giorni. E intanto con la preside della scuola vicino a casa non ci sarà andato a parlare nessuno.

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