25 novembre 2013 14:30

Dieci errori che i giornalisti devono evitare quando parlano di persone lgbt. Uno al giorno, per dieci giorni.

  1. Coming out

  2. Immagini

  3. Lesbiche

  4. Mamma

  5. Mondo gay

  6. Relazioni

  7. Transessualità

  8. Famiglia gay

  9. Icona gay

  10. Parole

La nostra carrellata sui tic e gli automatismi usati dalla stampa italiana quando parla di questioni lgbt giunge al termine. Come ultima voce ne ho tenuta una che forse le racchiude tutte: l’abitudine dei giornalisti di non soppesare le parole, e il loro significato nascosto.

Partiamo dalla brutta espressione “gusti sessuali”, che spesso è usata come sinonimo di orientamento sessuale. Alcune settimane fa hanno fatto scalpore le dichiarazioni dell’attrice bulgara Michelle Bonev sulla fidanzata di Berlusconi. Per molti giornali l’attrice stava rivelando i gusti sessuali di Francesca Pascale:

L’espressione “gusti sessuali” sarebbe andata bene se la Bonev avesse parlato di qualche pratica precisa, tipo fare sesso bendata e legata al letto. Essere lesbica, invece, non è una pratica erotica. È qualcosa che riguarda la sfera emotiva, prima ancora che quella sessuale. È un orientamento, non un gusto.

Peggio ancora sono le “scelte sessuali”, anch’esse molto gettonate. E forse sono una formula ancora più insidiosa, perché radicata nella convinzione che omosessuale ci diventi e ci diventi per scelta. E ovviamente anche in questo caso si sottolinea l’aspetto sessuale a discapito di quello emotivo.

Un altro grande classico è l’uso di “tollerare” e “accettare” al posto di “rispettare”. Molto usati in passato, oggi soprattutto il verbo tollerare non è più accettabile. Ne sa qualcosa Rita Dalla Chiesa, che in una puntata di Forum ha dichiarato che i gay vanno tollerati, ma non devono ostentare la loro omosessualità. È stata ricoperta di critiche, perché ha riassunto molto bene lo spirito che si cela dietro l’dea che gli omosessuali vadano tollerati, cioè sopportati.

Per quanto riguarda un tema più specifico, la maternità surrogata, in Italia si usa ancora una definizione a dir poco forte, e cioè “utero in affitto”. Ogni volta che la sento mi viene il dubbio se il prezzo si calcoli al metro quadro.

Questa definizione è particolarmente scorretta perché contiene un giudizio negativo, come se questa pratica riguardasse solo donne sfruttate dei paesi poveri, senza lasciare spazio all’eventualità - molto frequente per esempio negli Stati Uniti e in Canada - che la donna possa aver fatto una scelta deliberata e condivisibile.

Giornalisticamente parlando non è un’espressione neutra, perché non lascia spazio all’indagine e al dubbio. L’Avvenire, che non fa della neutralità la sua bandiera, parla di “eufemismi”, io li chiamo termini corretti:

Per fortuna, dico io, ci stiamo lentamente spostando verso l’anglicismo “maternità surrogata”, anche se neppure questo è completamente corretto. In inglese surrogate significa semplicemente sostitutivo, mentre in italiano il termine surrogato implica anche un valore inferiore, come a dire: in mancanza di meglio c’è questo.

I termini corretti sono gestazione per altri o maternità di sostituzione, ma comunque anche maternità surrogata va bene basta che ci liberiamo una volta per tutte del neologismo etico-immobiliare “utero in affitto”.

Per finire, concludiamo in bellezza con un classico intramontabile: trasgressione. Gli omosessuali sono tutti supertrasgressivi. Me lo ripeto tutte le mattine in quella piccola finestra di tempo che mi resta tra lasciare i figli a scuola e andare di corsa a fare la spesa. Una discoteca gay romana diventa la serata più trasgressiva della capitale. E Rosalinda Celentano, che bacia la fidanzata in auto, dà “baci proibiti” in una notte “all’insegna della trasgressione”.

Con quest’ultima chicca (di cui ringrazio il settimanale Chi e il suo trasgressivissimo direttore) arriviamo alla fine delle dieci puntate. E io posso tirare un sospiro di sollievo e scendere da questa cattedra che non mi merito.

In quanto giornalista, sono il primo a cadere in errori più o meno volontari sulle questioni più disparate. Questa è stata anche per me un’ottima occasione per riflettere su sfumature che non avevo mai notato. Perché a volte basta davvero fermarsi qualche secondo per fare meglio il mestiere di giornalista, ed evitare di usare male le parole commettendo delle violenze quotidiane.

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