16 aprile 2012 12:07

Non si sa ancora se la colpa sarà data all’autista dell’ambulanza o al vigile urbano di Pescara che aveva parcheggiato la sua auto davanti al mezzo degli infermieri. Persi tre minuti nei soccorsi, accusava domenica La Gazzetta dello Sport, dopo il crollo sul prato di gioco del centrocampista del Livorno Piermario Morosini. Fulminato presumibilmente da un infarto, non aveva ancora compiuto 26 anni. Il giornale sportivo parla di “domande senza risposta”, di “senso di impotenza” e pone una domanda pertinente: “Perché in Italia si continua a morire di sport, nonostante si dica che i nostri controlli sono i migliori del mondo?”.

A dire il vero la questione non è solo italiana. Comunque la risposta data di solito è l’insufficienza dei controlli cardiaci e la mancanza di defibrillatori vicino ai campi da gioco. ” È un problema di varie discipline ed è questa trasversalità che mi fa pensare che forse i controlli medici non sono sufficientemente approfonditi e frequenti”, ha commentato il ministro per lo sport Piero Gnudi. Per il resto, si parla di sfortuna.

Può darsi in effetti che la morte di Piermario Morosini sia solo il frutto di un tragico destino. Lo stesso tragico destino di Vigor Bovolenta, il pallavolista ex azzurro stroncato da un arresto cardiaco tre settimane fa. Destino solo un po’ meno tragico per il milanista Antonio Cassano, colpito da un malore e operato al cuore pochi mesi fa. Sorte simile anche per Fabrice Muamba, giocatore della squadra britannica del Bolton crollato anche lui in campo poche settimane fa e che si è salvato per miracolo.

Può darsi che tutti questi casi - come per il tumore di Eric Abidal o, nel passato, per la decimazione a causa di malattie varie di una buona parte della squadra della Fiorentina degli anni settanta - siano il frutto del caso. Ma fa impressione che in un mondo sportivo che ha assistito alla terribile morte di Marco Pantani e alle inchieste nate dalle dichiarazioni di Zdenek Zeman nel 1998 (“Il calcio deve uscire delle farmacie”) che hanno confermato “l’abuso di medicinali” nel calcio e in particolare alla Juventus, nessuno, dopo la morte di Morosini, abbia posto la questione doping. Che nessuno abbia evocato lo spettro dell’abuso di medicinali e che si sia dimenticato l’allarme lanciato anni fa dall’ex allenatore della nazionale di atletica Sandro Donati, prima che, per questa sua battaglia per un sport pulito, fosse espulso dall’ambiente stesso.

Eppure i segnali d’allarme non mancano. Vengono dalle parole stesse degli atleti. Dall’ex bomber di Fiorentina, Roma e Inter Gabriele Omar Batitusta che confida nell’agosto scorso al vicedirettore della Gazzetta dello Sport Luca Calamai che, a 42 anni, “non può stare in piedi più di mezz’ora per problemi alle ginocchia. Le infiltrazioni che ha subìto gli hanno sbriciolato i tendini”. Fino al tennista Andre Agassi e al ciclista Laurent Fignon (“Sì, mi sono dopato”), morto nel 2010 a soli cinquant’anni per un tumore. Non si potrà mai sapere se la sua malattia è stata legata all’uso di prodotti dopanti. Però la speranza di vita degli atleti professionisti tende a calare, mentre nel resto della popolazione continua a crescere. E lo spettacolo di alcuni ex divi dello sport diventati deformi o violenti dovrebbe fare riflettere l’opinione pubblica e i mezzi d’informazione specializzati, che preferiscono esaltare dei falsi miti ma, in quanto esperti di sport, sanno benissimo come vanno le cose.

Per quanto riguarda la politica, è ancora una volta latitante su un argomento, lo sport, che pure appassiona milioni di persone e che diffonde, sopratutto tra i più giovani, modelli sociali e di comportamento. Fatalista, ripete la solita solfa sul doping che è sempre più veloce dell’antidoping. In realtà le soluzioni esistono (passaporto biologico, controllo sui flussi di denaro e di medicinali dopanti, sanzioni pesantissime per gli atleti che imbrogliano e ancora di più per i loro entourage). Basta avere la volontà e il coraggio politico di andare contro il mondo falso e ormai velenoso dello sport di alto livello.

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