20 giugno 2013 13:54

L’altra sera ho visto uno di quei rari film che prima ti distrugge e poi ti rimette in piedi. [The act of killing][1] è un documentario del regista statunitense Joshua Oppenheimer sui massacri avvenuti in Indonesia tra il 1965 e il 1966, quando un tentato golpe andato male segnò l’inizio della fine per il presidente riformatore Sukarno, scatenando un’ondata di violenza contro i comunisti, i presunti tali e (già che c’erano) la locale comunità cinese, anche se la maggior parte dei cinesi in Indonesia erano dei piccoli imprenditori fuggiti dalla Cina comunista.

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Non sapremo mai le cifre esatte, ma si stima che in sei mesi siano morti circa mezzo milione di persone, uccise in modo più o meno barbaro dalle squadre della morte sotto gli occhi compiaciuti dell’esercito e delle autorità locali, che ormai erano quasi tutte in mano al furbo e carismatico generale Suharto, che da lì a poco sarebbe riuscito a estromettere Sukarno e farsi eleggere presidente.

 

Siamo così abituati al meccanismo che prevede l’assunzione di una colpa collettiva (come la Germania dopo la guerra) oppure dei tribunali per la pace e la riconciliazione (Sudafrica, Ruanda) come iter necessario per una purificazione nazionale, che fa una certa impressione confrontarsi con una società che, almeno nel racconto di Oppenheimer, non ammette nessuna colpa per quello che è successo quasi cinquant’anni fa e ancora tratta gli aguzzini di allora come eroi.

 

Invece di scagliarsi contro questa cecità nazionale, Oppenheimer ha fatto una cosa intelligente. Ha fatto finta di essere un regista di fiction che vuole fare un film d’azione sugli eventi di quegli anni. E ha chiesto a due piccoli gangster di strada, vicini alle forze paramilitari responsabili di molti massacri, di interpretare se stessi. Da cui il titolo del documentario: in inglese,

the act of killing significa sia “l’atto di uccidere” sia “la recita del massacro”.

 

Davanti a una tale richiesta a chiunque verrebbe spontanea la domanda: perché un regista americano vuole girare in Indonesia un film d’azione nel quale un ultrasessantenne interpreta un uomo di vent’anni? Ma forse il fatto che i suoi “attori” abbiano accettato senza farsi troppe domande dà la misura della mancanza di complessi nell’Indonesia contemporanea verso quei fatti di sangue.

Il protagonista, Anwar Congo, è un uomo vispo di carattere apparentemente bonario. Ma non ha problemi nel far vedere al regista (in sequenze che immagino siano state presentate agli attori come il making of del finto film d’azione) come ha strangolato le sue vittime con il fil di ferro perché con altri metodi “c’era troppo sangue da ripulire”. Un altro assassino, veterano di quegli anni, ricorda scherzosamente, come se raccontasse una barzelletta, che un giorno si era messo in testa di uccidere tuti i cinesi che incontrava per strada. Il fatto che uno di loro fosse il patrigno della sua ragazza di allora non l’ha fermato.

 

I gruppi paramilitari sono ancora vivi e vegeti in Indonesia, e per le autorità sono ancora utili al mantenimento dell’ordine nazionale: lo dice nientedimeno che il viceprimo ministro del paese a un comizio del Pemuda Pancasila, il maggiore di questi eserciti paralleli.

 

Ma la grandezza del film di Oppenheimer sta anche nel fatto che non è una semplice presa di coscienza imposta dal dio-analista-regista. A un certo punto parte per una tangente inaspettata: il regista comincia a dare forma scenica agli incubi di Congo, arrivando a regalarci delle scene surreali (un pesce gigante di cartapesta, ragazze danzanti, un collega-assassino di Congo che si traveste da donna…) che sembrano uscite da un musical diretto da un Dalì indonesiano.

The act of killing ha debuttato al festival di Toronto l’anno scorso. Finora l’unica proiezione ufficiale in Italia, che io sappia, è stata al Biografilm Festival di Bologna. È un peccato che questo film importante, straziante, originale, non abbia ancora un distributore italiano, perché meriterebbe di essere visto da tutti.

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