13 settembre 2013 14:52

Un articolo della scrittrice etiope Maaze Mengiste sul razzismo in Italia, apparso sul Guardian (e pubblicato su Internazionale questa settimana), sta provocando un dibattito vivace sul sito del giornale britannico. Mengiste comincia ricordando ai lettori inglesi le minacce e gli insulti continui rivolti alla ministra Cécile Kyenge: dalla similitudine con un orango fatta da Roberto Calderoli ai manichini cosparsi di vernice rossa sistemati a fine luglio tra gli stand della festa Pd di Cervia, dove Kyenge era attesa (il gesto è stato bissato a Roma un mese dopo).

Certo, in questi due casi si tratta di esponenti della Lega nord e di Forza nuova, che non rappresentano la maggioranza degli italiani. Gruppi analoghi esistono in tutta Europa, anche in Gran Bretagna, dove il razzismo da stadio è ancora in agguato, insieme a una nuova e pericolosa forma di razzismo “ragionevole”, fomentata anche dalle istituzioni, che si nasconde dietro alla lotta all’immigrazione clandestina.

Ma la tesi di Mengiste riguarda anche un paese in cui è pensabile che un presidente del consiglio definisca abbronzato Barack Obama, o un paese in cui una signora, apparentemente per bene, in fila davanti al banco del pesce al supermercato, si rivolga all’amica dicendo: “Ah, ma io sono razzista, non ho problemi a ammetterlo”. Questa scena me l’ha raccontata mia moglie, scioccata non tanto per l’ammissione, quanto per il fatto che alla signora sembrasse normale farla in un luogo pubblico, davanti a molte altre persone.

Per Mengiste c’è un legame stretto tra questa specie di libertà di sostenere (scherzosamente o no) delle posizioni razziste, e la mancata chiusura dei conti con l’era fascista, un argomento che

ho già trattato anch’io. L’autrice, il cui nonno ha avuto esperienza diretta della ferocia delle truppe di Badoglio, fa presente che anche dopo la caduta del fascismo la guerra in Etiopia fu presentata come una missione civilizzante, e che per tanti anni l’uso di armi chimiche contro la popolazione locale sia stata negata perché in contrasto con la leggenda degli italiani brava gente.

Per chi vuole approfondire l’argomento, la rivista Zapruder-Storie in movimento ha dedicato tutto un numero al tema “Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano”. Nell’editoriale di apertura, Elena Petricola e Andrea Tappi ricordano, per esempio, che “il Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, una sorta di agenzia postuma di propaganda delle imprese coloniali, è rimasta in vita fino al 1984”. Mentre, sfogliando la manualistica di storia per i licei italiani dal dopoguerra a oggi, Tappi e Giuliano Leoni dimostrano che “il definitivo tramonto di una narrazione stereotipata avviene solo a partire dagli anni novanta, ma senza riuscire a superare di fatto la prospettiva italocentrica da cui si guarda all’Africa”.

Ma la parte più incisiva e lucida dell’articolo di Mengiste riguarda la narrativa che gli italiani si sono costruiti per sentirsi una nazione. Ecco l’intero passaggio: “Dal 1861, l’anno dell’unificazione, è stato quello di accomunare gruppi di persone molto diverse e spesso in conflitto fra loro. Si attribuisce a Massimo d’Azeglio la frase: ‘Abbiamo fatto l’Italia. Ora dobbiamo fare gli italiani’. L’identità collettiva dell’Italia, ammesso che esista, è stata costruita con cura. Un’identità che ha avuto tra le sue componenti la pelle bianca. E che oggi si sente messa in discussione dalla presenza della ministra Kyenge”.

Esattamente. E viene messa in discussione anche da Mario Balotelli, accolto al suo esordio da diciottenne con la Juve da uno striscione con scritto: “Non ci sono negri italiani”. Oppure dal giornalista del Tg3 Lazio Fidel Mbanga-Bauna, oppure dai medici e perfino i carabinieri di colore (sì, esistono) che cominciano, molto lentamente, a intravedersi.

La lentezza è sicuramente determinata anche dal fatto che, come dimostra il caso Kyenge, i pionieri sono quelli più esposti agli attacchi razzisti. E qui c’è un caso esemplare. Qualcuno forse si ricorderà di un caso di cronaca successo a Brescia nel 2006, quando Godswill James Ekpo, un medico di pronto soccorso presso una clinica di Brescia, cittadino italiano di origini nigeriane, è stato insultato dal familiare di un paziente arrabbiato per la precedenza data ad altri casi più gravi. “Quando i miei parenti italiani costruivano quest’ospedale”, disse l’aggressore, “tu eri ancora in mezzo alla foresta. E ora vieni qui e pretendi di insegnarci a organizzare gli ospedali”.

Con il pieno appoggio dei colleghi, Ekpo ha presentato querela. Ma episodi del genere logorano. Cercando di capire che cos’è successo a Ekpo da allora, mi sono imbattuto in una discussione sul forum online GhanaWeb dell’agosto del 2009, in merito a un articolo su una carenza di dottori nel paese. Ekpo ha scritto così sul forum: “Sono un medico nigeriano-italiano residente in Italia da trent’anni. Sono specializzato in pronto soccorso, medicina generale, medicina tropicale e malattie infettive. Vorrei lavorare in Ghana e contribuire a garantire un servizio sanitaria di qualità per il nostro popolo” (sottolineo, a proposito della frase “il nostro popolo”, che Ekpo non è ghaneano).

Poi trovo un’altra pagina web che risale a solo una settimana fa sul sito Expatblog, una specie di LinkedIn per espatriati in tutto il mondo. È la pagina personale di Godswill James Ekpo, che si presenta così: “Sono un espatriato. Sono italiano, e adesso vivo in Inghilterra, a Sheffield”.

Sto cercando di mettermi in contatto con Ekpo per capire esattamente come sono andate le cose. Può darsi che la sua decisione di emigrare non c’entra niente con gli insulti razzisti subiti. Speriamo. Se mi risponde al messaggio che ho lasciato sul forum Expatblog, riferirò in un nuovo post.

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