17 aprile 2014 10:42

Vent’anni fa, un artista contemporaneo ha dato il via a un’opera concettuale che lo avrebbe tenuto occupato per tutto il resto della sua vita.

Ispirato da un paio di colleghi che imballavano ponti, monumenti e isole, l’artista decise di imbruttire un’intera nazione. A dire il vero aveva già cercato di deturpare il suo paese natale qualche tempo prima con una performance in cui occupava metà dello spazio televisivo nazionale. Usava questa piattaforma per diffondere stupidità, denigrare le donne e diffondere informazioni faziose. Ma il processo di abbrutimento era stato troppo lento, e non tutti guardavano i suoi canali.

Il primo passo del nuovo progetto consisteva nel fondare un partito politico organizzato come un’azienda, il cui programma era farsi eleggere.

Il secondo passo: parlare di “pericolo comunista” senza far ridere.

Il terzo passo: far circolare la voce che era stato costretto a entrare in parlamento per evitare di finire in prigione.

Il quarto passo: farsi eleggere nonostante tutto. Il sistema ideato dall’artista era semplice: prometteva più soldi in tasca agli elettori, contando sul fatto che molti suoi concittadini la pensavano proprio come lui. Cioè che il benessere personale è più importante della legalità, e che le promesse contano più dei fatti.

Così fu.

Una volta eletto, l’artista decise di usare il parlamento per fare delle leggi che erano palesemente scritte per tutelare lui, l’artista. Alcuni artisti rivali sostenevano che questa parte del progetto era troppo estrema, che sarebbe stato impossibile farlo senza scatenare un’ondata di disgusto da parte della società civile che avrebbe travolto lui e il suo governo. L’artista non era di questa opinione.

Aveva ragione. Le leggi passarono e nel paese non scoppiò nessuna rivolta.

Così, proprio come l’artista aveva progettato, il paese si imbruttì, divenne moralmente più piccolo e meschino, e i suoi cittadini cominciarono a litigare tra di loro e a odiarsi a vicenda. Ma sotto sotto odiavano anche se stessi: sia chi aveva cavalcato lo tsunami di viltà scatenato dall’artista, sia chi era rimasto con i piedi piantati per terra a resistere. Questi ultimi si odiavano perché - anche se non erano stati travolti - erano comunque riemersi coperti di merda. E anche se era merda dell’artista, non merda loro, puzzava ugualmente.

Nel frattempo l’artista aveva lanciato una serie di progetti collaterali, sempre allo scopo di lasciare il paese in uno stato peggiore di come lo aveva trovato. Durante gli incontri internazionali aveva fatto una serie di gaffes che avevano coperto di ridicolo lui e il paese che governava. Aveva condotto una vita privata che lo faceva apparire un personaggio squallido e lo aveva fatto alla luce del sole, in modo che tutti sapessero. Aveva manipolato e censurato quella metà della tv pubblica che non possedeva già. Quando c’era stato un terremoto nel paese, un terremoto vero, aveva sfruttato il sisma e i suoi morti per fare comizi, per poi condannare la zona colpita a una lenta agonia.

Ma non si divertiva più, era tutto troppo facile. Con le sue provocazioni l’artista aveva operato un’anestesia morale del paese, e non c’è divertimento a imbruttire un cadavere.

Quindi, l’artista decise di porre fine alla sua lunga performance, o meglio di far credere di essere arrivato alla conclusione, inscenando un martirio. Fece in modo che uno dei tanti processi in cui era coinvolto giungesse a una condanna definitiva e la spacciò come la persecuzione di un branco di magistrati comunisti. Arrivò a paragonarsi a Nelson Mandela; disse che i suoi figli erano come gli ebrei sotto Hitler. Se non altro, queste scene finali della performance hanno avuto l’effetto collaterale di dimostrare che Dio non esiste. Perché se esistesse avrebbe sicuramente fulminato l’artista.

Schifato dal paese che era riuscito a imbruttire quasi senza muovere un dito, l’artista diede il colpo di grazia al tenore morale delle istituzioni riuscendo a farsi ridurre una pena di quattro anni di carcere a quattro ore a settimana di assistenza in un centro per anziani, per dieci mesi e mezzo. In altre parole, l’artista fu condannato a chiacchierare con dei suoi coetanei per un totale di 168 ore, con piena libertà di proseguire la sua performance artistica durante le rimanenti 8.592 ore dell’anno.

Alcuni provarono a difendere l’onore del paese e le sue istituzioni sostenendo che l’artista non ha contrattato la sua pena con i magistrati. La verità, dissero, era che questi ultimi si sono limitati ad applicare la legge vigente. Ma l’artista sapeva che la verità non conta. Per imbruttire un paese, bastano le impressioni.

Adesso l’artista sta cercando degli sponsor per un nuovo progetto. Dalle prime notizie trapelate si tratterebbe di buttar giù un intero edificio per il puro piacere di farlo. Ma nessuno si lamenterà: negli ultimi anni, l’edificio si era imbruttito parecchio. Chissà se qualcuno ne sentirebbe la mancanza.

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