25 novembre 2011 10:04

In Siria stanno aumentando in modo preoccupante le operazioni militari organizzate sia dal governo sia dai gruppi di opposizione, con i disertori dell’esercito che attaccano le istituzioni dello stato. È un’escalation che potrebbe portare la Siria alla guerra civile, ma è anche un normale rito di passaggio per uno stato arabo moderno che si trova ad afrontare le conseguenze delle sue contraddizioni e della sua incompetenza.

Molti paesi arabi hanno vissuto un duro conlitto interno di qualche tipo, o una vera e propria guerra civile, perché non hanno dato ai loro cittadini altri strumenti per organizzare la vita politica. Yemen, Iraq, Palestina, Sudan, Algeria, Libano, Libia, Giordania, Somalia, Tunisia, Egitto, Oman e Bahrein sono stati tutti alitti da lotte interne, lunghe stagioni di terrorismo o guerre civili. A questa triste lista oggi si aggiunge la Siria, che inora ne era rimasta immune, forse perché le conseguenze di un conlitto al suo interno sarebbero state pericolose per l’intera regione.

Ora sembra che il movimento di protesta cominciato nel sud della Siria per chiedere riforme politiche limitate sia diventato una vera sollevazione nazionale per abbattere il regime del presidente Bashar Assad. Il potere non ha saputo rispondere alle proteste in un modo politicamente credibile e ha represso duramente le manifestazioni, facendo aumentare la resistenza, che ormai è diventata armata. E non ha saputo nemmeno impegnarsi in iniziative diplomatiche regionali.

Il risultato è stato un sempre maggiore isolamento della leadership siriana, una totale perdita di iducia nei suoi confronti sia da parte dei dissidenti interni sia dei suoi interlocutori regionali, un aumento delle sanzioni della comunità internazionale. La totale mancanza di alternative ad Assad oggi non fa che alimentare il conlitto. A questo si aggiungono le pesanti interferenze di altri paesi della regione negli afari siriani, per proteggere i civili e fermare gli scontri o per esercitare pressioni sul regime e costringerlo a cambiare radicalmente o ad andarsene. Da questo punto di vista gli interventi più signiicativi sono stati quelli della Lega Araba e della Turchia, e senza dubbio nelle prossime settimane se ne vedranno i risultati.

A mio avviso, però, una guerra civile in Siria rimane improbabile. Se le cose cominciassero ad andare in quella direzione sicuramente almeno uno dei cinque pilastri del regime (l’esercito, il mondo degli afari, gli alawiti, le minoranze, le silenziose classi medie di Aleppo e Damasco) farebbe mancare il suo appoggio. Questo probabilmente farebbe crollare l’ordine esistente, perché l’esile sostegno di cui gode il regime apparirebbe evidente, come è già accaduto in Egitto, in Tunisia e in Libia.

A diferenza di quanto è successo in Libano, in Somalia, in Algeria e in altri paesi arabi che hanno sopportato anni di distruzione e di morte, ho la sensazione che una guerra civile in Siria non durerebbe a lungo, perché le reazioni interne e internazionali porterebbero rapidamente alla fine del regime e all’arrivo di un nuovo ordine.

Finora ogni rivolta araba è stata diversa dalle altre, non ci sono stati due cambiamenti di regime identici. E anche in Siria assisteremo alla combinazione tra resistenza popolare e intervento militare esterno che ha caratterizzato tutti i cambiamenti di regime in Nordafrica, con l’aggiunta di qualche elemento tipicamente siriano. La novità di maggior rilievo è il ruolo svolto dalla Turchia, il potente vicino non arabo che sta cercando il modo più opportuno per fare pressione sul regime di Damasco e favorire la transizione verso un sistema di governo più democratico. Non c’è da sorprendersi del fatto che gli scontri armati si siano difusi in tutta la Siria, perché le rivendicazioni del popolo siriano non sono molto diverse da quelle dei cittadini di altri paesi arabi che si sono già ribellati.

La disparità delle condizioni di vita e la cronica mancanza di diritti politici sono arrivate a tal punto che milioni di cittadini comuni hanno deciso che valeva la pena di rischiare la vita per rivendicare i diritti di cittadinanza e per chiedere un sistema di governo migliore. È la scelta che è stata fatta in tutto il mondo arabo: migliaia di persone hanno pagato questa decisione con la vita, e altre lo faranno nei prossimi anni.

Un aspetto anomalo dell’attuale situazione in Siria è che le forze locali, regionali e internazionali si stanno unendo per determinare il cambiamento, e i gruppi di opposizione stanno svolgendo un ruolo importante nel coordinare i militari che hanno abbandonato l’esercito, i manifestanti locali, la Lega Araba, la Turchia e una mezza dozzina di altri protagonisti. Seguiremo l’evolversi degli eventi, ma la direzione in cui stanno andando è ormai chiara: in Siria si tratta solo di capire come avverrà la transizione dopo quarantadue anni di regime.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 925, 25 novembre 2011*

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