12 settembre 2014 11:31

Ora che di nuovo non siamo più rilevanti e non veniamo menzionati nei titoli delle prime, seconde e terze pagine dei giornali, ora la mattina possiamo emettere un cauto sospiro di sollievo.

Non c’e più bisogno di inventarsi delle false identità per rispondere alla domanda “di dove sei?”, per non dover avviare ogni secondo un confronto geopolitico con un tassista della capitale. All’improvviso non arrivano più telefonate da amici con cui non mi sentivo dai tempi dell’università, e che con la scusa di chiedere come sto attaccano un discorso pro o anti israeliano, a seconda dei casi.

Di nuovo i miei vicini di casa hanno la libertà di non salutarmi in ascensore, e non perché sono filopalestinesi ma semplicemente per antipatia.

In questi giorni ci è permesso di tornare su Facebook senza dover necessariamente litigare, di avere il tempo per guardare i filmati più assurdi e di condividere un articolo del Daily Telegraph che nomina Israele come uno dei 25 posti da visitare prima di morire, ricevendo perfino qualche inaspettato like.

Ora che è finita la guerra, in rete è di nuovo recuperabile il video di un gruppo musicale israeliano, dedicato a tutti gli israeliani che hanno scelto di vivere altrove per ambire a uno stipendio più elevato o un affitto più basso, o semplicemente per cercare di vivere meglio. Ovviamente qualcuno ha sottolineato: per vivere, punto. La tv israeliana parla di un 30 per cento di israeliani che sarebbero disposti a emigrare: forse non sanno che in poco tempo, ogni volta che porteranno il proprio cane al parco, si troveranno a essere ritenuti - loro malgrado - dei diplomatici ed esperti di politica internazionale.

L’annuncio della fine della guerra ci coglie increduli e sospettosi quasi quanto l’annuncio del suo inizio, e i mezzi di comunicazione tornano a parlare di altro. La notizia arriva al termine di una lunga ossessione mediatica che ha saputo trasformare il conflitto israeliano nel conflitto più parlato e commentato in assoluto. Anche se le guerre e i conflitti sono tanti.

Di questo squilibrio informativo parla a lungo Matti Friedman, ex corrispondente del Ap in Israele. Friedman sottolinea la sproporzione del numero dei corrispondenti, autori di una copertura mediatica per niente obiettiva e comunque lontana dalla realtà globale.

Non è una voce solitaria. Anche Richard Miron, ex inviato della Bbc in Medio Oriente, pone alcune domande importanti per quanto riguarda la copertura mediatica del conflitto tra Israele e Gaza. E circa due settimane fa Forbes ha criticato un “giornalismo pigro e superficiale, mosso da un’agenda politica e da qualche interesse”.

Il conflitto di questa estate non cambierà la storia: cambierà solo la vita dei familiari delle vittime che oggi continuano a fare i conti con le loro ferite e a vivere in un incubo costante. Di loro il mondo - se mai ne è venuto a conoscenza - si è già dimenticato. Dei loro cari non ne parla più nessuno. Di nuovo non sono più rilevanti.

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