27 maggio 2015 13:50

Come in un romanzo di Manuel Scorza, gli invisibili dell’ex Indesit di Carinaro, da quando hanno scoperto che i neoproprietari americani della Whirlpool li hanno cancellati con un semplice tratto di penna su un piano industriale senza averli mai guardati in faccia, hanno provato a farsi notare in ogni modo: sono saliti sull’Asse mediano, la tangenziale che passa sopra la Terra dei fuochi e fa ombra alla fabbrica di frigoriferi, hanno bloccato stazioni ferroviarie e ottenuto la solidarietà dai colleghi degli altri stabilimenti, hanno presidiato il posto di lavoro e ricevuto una processione di politici in campagna elettorale per le imminenti regionali, si sono incatenati ai cancelli e qualcuno di loro ha pure dormito sul tetto dell’azienda.

Ma sarebbe bastato azzardare una passeggiata nell’area industriale che da Caserta sud si estende fino ad Aversa per capire che a nulla è servito ritardare la partenza di un treno regionale o rallentare il traffico già di per sé disordinato di questa sterminata banlieue mediterranea che circonda Napoli come una corona di spine. Il motivo è semplice: chi dovrebbe ascoltarli si tiene alla larga da queste terre un tempo fertili e oggi solo desolate. Anzi, con ogni probabilità non è mai stato da queste parti.

Ad aggirarsi tra binari dismessi e capannoni abbandonati di quello che avrebbe dovuto essere uno dei cuori pulsanti dell’industrializzazione nel Mezzogiorno, tra un gregge di pecore alla ricerca di un pezzo di campagna residuo da brucare e tracce di prostituzione e traffici di ogni genere, vengono in mente le domande che il filosofo Étienne Balibar ha posto di recente a una platea di docenti, ricercatori e studenti alla Fondazione Basso di Roma: “Dov’è la lotta di classe oggi? Dove i luoghi dell’antagonismo oggi? E quali forme esso deve prendere, quando i poteri sono lontani e inafferrabili?”.

Duecentotrenta chilometri più a sud gli 815 operai condannati alla disoccupazione della ex Indesit di Carinaro, pur non avendo cognizione delle questioni teoriche poste da Balibar, si erano già posti più o meno gli stessi interrogativi. Dopo essersi accorti che presidiavano un bidone svuotato e che era inutile urlare al vento, una mattina si sono presentati sotto le abitazioni degli americani che lavorano alla vicina base Nato di Gricignano. Si auguravano che la loro protesta arrivasse, rimbalzando sui mezzi d’informazione statunitensi, alle orecchie dei nuovi proprietari d’oltreoceano ai quali il presidente del consiglio Matteo Renzi aveva appena spalancato le porte, in cambio dell’impegno a mantenere occupazione e produzione almeno fino al dicembre del 2018. L’unico modo per farlo era andare a strillare la loro rabbia davanti alle villette, ai campi da baseball e ai prati ben curati in puro stile New Jersey di questa enclosure a stelle e strisce protetta da inferriate e marines armati di tutto punto. Ma hanno peccato d’ingenuità: l’iniziativa non ha fatto notizia al di là dell’Atlantico e gli operai sono tornati indietro con le pive nel sacco.

Al bar della piazza di Carinaro, seimila abitanti e nessuna soluzione di continuità con i confinanti comuni di Gricignano, Teverola e Aversa, non tutti si sarebbero comportati allo stesso modo. Andrea, settantenne un po’ diffidente ma con tanta voglia di parlare, alla Indesit ci ha lavorato quarant’anni prima di andare in pensione e oggi ritiene che la carta da giocare per uscire dalla condizione di invisibilità doveva essere un’altra: nientemeno che il Vaticano.

A suo avviso, piuttosto che sfilare verso il villaggio della Nato o abbandonarsi ad altre piazzate da masanielli di periferia, gli operai avrebbero dovuto sfruttare il fatto che Carinaro è il paese natale del cardinale di Napoli Crescenzio Sepe: occorreva approfittare del fatto che questi era stato uno dei primi a esprimere solidarietà con i lavoratori, andando di persona ai cancelli e ascoltando commosso la lettera strappalacrime di una bambina di otto anni, figlia di un operaio: “Il mio papà è cambiato, non esce più di casa, non gioca più con me”.

“Dovevano andare in piazza San Pietro, chiedere al cardinale che facesse intervenire papa Francesco, allora sì che il governo si sarebbe mosso davvero”, sostiene Andrea.

Divergenze sulle strategie a parte, tutti paiono concordi che l’unica chance a loro disposizione è quella di costringere il governo a intervenire sul serio e a trattare direttamente con gli americani. Per questo è accaduto pure che gli operai abbiano riempito quattordici autobus per venire a far sentire la loro voce sotto i palazzi del potere a Roma, nel giorno del primo incontro al ministero dello sviluppo economico. Ma, complice anche un’uggiosa giornata primaverile, pure stavolta la loro disperazione non ha trovato l’accoglienza che avrebbe meritato.

E alla fine l’unico luogo in cui gli invisibili non sono più tali è la piazza del paese. È lì che a qualsiasi ora della giornata trovi a discutere sempre e solo dello stesso argomento lavoratori dell’Indesit di oggi e di ieri.

Come Paolo Barbato, oggi ottantenne, messo fuori nel 1980 alla prima crisi industriale, quando l’azienda finì addirittura in amministrazione controllata e un bel giorno, ricorda l’altro ex operaio in pensione Andrea, “abbiamo trovato i cancelli chiusi e abbiamo fatto sei mesi di lotta per rientrare, alla fine ci siamo riusciti ma molti sono finiti in mobilità”.

Furono anni duri, finché nel 1987 arrivò la Merloni e con essa la ripresa: fece diventare il marchio Indesit leader in Europa nel settore degli elettrodomestici e di conseguenza rilanciò gli stabilimenti casertani di Carinaro e Teverola, dove a quel tempo si produceva ogni tipo di elettrodomestico. I più anziani rimpiangono patròn Vittorio, che “arrivava con l’elicottero ed era sempre presente quando ce n’era bisogno”, mentre oggi, con gli americani che nessuno ha mai visto, tra gli operai “c’è scoramento e nervosismo perché non sappiamo più cosa fare”.

Stabilimento abbandonato nel polo industriale di Teverola. (Andrea Sabbadini, Buenavistaphoto)

Dopo i fasti degli anni novanta, la fabbrica ha smobilitato poco alla volta: dei 5.500 dipendenti di un tempo oggi ne rimangono poco più di ottocento, e solo la metà sono al lavoro mentre gli altri sono in cassa integrazione a rotazione. Lo stabilimento di Teverola ha chiuso due anni fa lasciando a casa duecento lavoratori, la ferrovia per il trasporto merci che tagliava l’intera area industriale ed entrava nelle fabbriche è stata dismessa e rimane solo un binario morto coperto dalle erbacce, le produzioni d’eccellenza sono state via via trasferite e a Carinaro ora si producono solo frigoriferi e piani cottura.

In un vicino deposito la Whirlpool ha mantenuto la logistica, mentre il resto della produzione è stato delocalizzato in Polonia e in Turchia; e colpisce che qualcuno, tra i lavoratori casertani, si dica pronto persino a emigrare laggiù come hanno già fatto un camionista e due dipendenti, dicendosi disposto ad andare a vivere “in dieci in un appartamento, come oggi gli immigrati da noi”, pur di poter lavorare, “perché qui non c’è più niente da fare”.

Ancora più incredibile è però il fatto che la più grave crisi industriale del 2015 in Italia rimanga relegata ai tavoli tecnici tra rappresentanti dell’azienda, funzionari ministeriali ed esponenti sindacali. Il piano industriale presentato dalla multinazionale americana all’indomani dell’accordo con il governo italiano per mantenere la produzione prevede 2.080 licenziamenti su 6.700 dipendenti, 1.430 dei quali tra gli operai, 150 nel settore della ricerca e 480 tra gli amministrativi.

“Per l’Indesit di Carinaro non c’è futuro”, ha detto senza mezzi termini l’amministratore delegato per l’Italia della Whirlpool, Davide Castiglioni, in un’intervista al Mattino di Napoli. E nonostante le blande rassicurazioni di Renzi durante un incontro con una delegazione di operai a margine della visita agli scavi di Pompei e l’apertura di un tavolo istituzionale al ministero dello sviluppo economico, la multinazionale non si è mossa di un millimetro.

Ad ammetterlo senza tanti giri di parole, davanti a cinquecento lavoratori nella sala mensa dello stabilimento, è stato il segretario della Fiom Maurizio Landini: “L’azienda si è detta disposta anche a portare una nuova famiglia di lavatrici a Napoli, ma su Carinaro non c’è stata alcuna marcia indietro”.

La desertificazione della più grande area industriale della Campania appare così definitivamente compiuta. Delle 22.418 tute blu casertane, si prevede che nel solo 2015 ne resteranno a casa tremila, andando a ingrossare la percentuale di disoccupati in una provincia che già vanta dati doppi rispetto alla media nazionale: il 21,5 per cento della popolazione è senza lavoro e i giovani in cerca di un’occupazione sono addirittura il 67,4 per cento, un esercito di riserva a disposizione delle sirene della criminalità organizzata. “Se va bene, si riuscirà a creare un polo del frigorifero insieme all’altra fabbrica napoletana e a salvare così una parte dei lavoratori”, ammettono alla Fiom. Difficilmente si riuscirà a ottenere molto di più e per Carinaro in ogni caso non appare esserci alcun futuro possibile.

Dovesse finire così, la botta sarà pesantissima e difficile da riassorbire: si pensi che, con le aziende dell’indotto, attorno all’ex Indesit casertana gravitano più o meno 1.500 lavoratori. Per esempio, che fine faranno i 147 dipendenti dell’Agroplastica srl, che si occupano degli interni degli elettrodomestici – portauova, oblò, vaschette per il detersivo – e che trovo sdraiati sui binari della stazione di Aversa, sorvegliati a vista da un nutrito gruppo di poliziotti che si guardano bene dall’alimentare la tensione? Paolo Palumbo è un rappresentante sindacale della Fim-Cisl e per ironia della sorte è seduto per terra giusto davanti a una bandiera rossa della Fiom-Cgil piantata tra le rotaie, simbolo di un’unione sindacale di fatto stabilita sul campo, in nome dell’emergenza.

“Siamo già cassintegrati per quindici giorni al mese, guadagniamo poco e ormai gli ammortizzatori familiari sono finiti. Abbiamo raschiato il fondo del barile, molti di noi hanno affitti o mutui da pagare. Il nostro lavoro è legato direttamente alla ex Indesit. Se chiuderà ce ne andremo a casa pure noi”, dice.

Non aiuta nemmeno l’età media dei dipendenti dello stabilimento di Carinaro: 47-48 anni non sono abbastanza per puntare alla pensione e allo stesso tempo cominciano a essere troppi per pensare di riconvertirsi e di trovare un altro impiego, specie di questi tempi.

Anche per questo la chiusura della fabbrica rischia di essere una bomba sociale. In passato, per disinnescare situazioni del genere lo stato ha accompagnato le persone alla pensione con casse integrazioni a ripetizione, una sorta di salario minimo non ufficializzato al quale spesso i beneficiari aggiungevano qualche lavoretto al nero che consentiva loro di avere un reddito appena decente. Ma questa ricetta appare ora difficilmente replicabile, visti i giri di vite sulle casse in deroga.

Un altro ammortizzatore sociale erano i lavori socialmente utili, a disposizione dei comuni, ma la spending review e i patti di stabilità hanno eliminato anche questa possibilità. Cosa ne sarà, dunque, degli esuberi di Carinaro?

Una manifestazione degli operai dello stabilimento Whirlpool ex Indesit e degli abitanti dei paesi limitrofi contro la chiusura dello stabilimento, aprile del 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavistaphoto)

La domanda che si sono posti in molti, il giorno dopo la presentazione del piano industriale lacrime e sangue dei nuovi proprietari, è se e fino a che punto il governo fosse al corrente di ciò che si andava preparando, al momento della vendita della Merloni agli americani. Matteo Renzi si era sbilanciato non poco, definendola “un’operazione fantastica” e dicendo entusiasta al Corriere della Sera: “Ho parlato personalmente con gli americani a palazzo Chigi, non si attraggono gli investimenti e poi si grida al lupo, riscoprendo un’autarchica visione del mondo che pensavamo superata. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale”.

Volendo credere alle parole dell’ad Castiglioni, era proprio quest’ultimo a essere invece sconosciuto al premier italiano: “Il governo non è mai stato informato da noi della chiusura dello stabilimento di Carinaro e dei numeri relativi all’occupazione”, ha detto il plenipotenziario della Whirlpool nel nostro paese. Ed è appunto quando ha visto il piano industriale che alla ministra per lo sviluppo economico Federica Guidi per poco non è preso un colpo: gli americani hanno messo sul piatto la chiusura definitiva degli stabilimenti di Carinaro e di None, nonché l’accorpamento di quelli di Melano e Albacina, nelle Marche (con 235 licenziamenti), e di Comerio e Milano, affidando il rilancio a un investimento da 500 milioni e 280 nuove assunzioni a Cassinetta, nel varesotto, però con altrettanti esuberi.

E la promessa di mantenere tutto invariato fino al 2018? Era figlia di un patto siglato dai venditori e non dai compratori e comunque facile da scavalcare: i lavoratori saranno messi in cassa integrazione a zero ore e formalmente licenziati ad accordo scaduto.

Nella piazza di Carinaro non credono all’ingenuità del presidente del consiglio: “La Whirlpool non può aver deciso di dismettere tutto dalla sera alla mattina ed è impossibile che il governo non fosse a conoscenza delle intenzioni degli americani quando è stato siglato l’accordo per la cessione della Merloni”, è il ragionamento generale.

Anche perché dall’“operazione fantastica” renziana alla presentazione del piano industriale sono trascorsi appena tre mesi e i nuovi padroni hanno dimostrato di avere le idee chiare su quello che intendevano fare. L’ad Castiglioni ha lasciato intendere che la situazione critica ereditata dalla Merloni era ben nota a palazzo Chigi: “Al momento dell’acquisizione di Indesit erano già in essere 940 esuberi. C’era un numero di dipendenti più alto di quelli che occorrevano, a Carinaro parliamo del doppio dell’attuale organico”. Insomma, per l’amministratore delegato della Whirlpool “il piano-Italia di Indesit era noto a tutti: sindacati, ministeri dello sviluppo economico e del lavoro, lavoratori”. Una patata bollente che è stata consegnata ai nuovi proprietari, che non avrebbero fatto altro che rimodellarla decidendo di concentrare forze e investimenti al nord.

Raggirato o meno che sia stato il nostro capo del governo, è evidente che il colpo basso alla vigilia di elezioni regionali già minate dal caos legato alla candidatura del sindaco-sceriffo di Salerno Vincenzo de Luca non ha favorito Matteo Renzi. Il premier avrebbe volentieri fatto a meno di una crisi industriale dagli effetti sociali potenzialmente devastanti prima di un voto in cui spera di fare tabula rasa alla sua sinistra e di mandare in frantumi la destra post-berlusconiana.

Ad approfittarne per primo, infatti, è stato il presidente della regione Stefano Caldoro, reduce da un quinquennio molto opaco e alla ricerca di un complicato e affannoso recupero. La giunta del Pdl ha preso al balzo la palla della protesta e ha stanziato cinquanta milioni per lo stabilimento di Carinaro con un provvedimento che, denuncia l’europarlamentare del Partito democratico Massimo Paolucci, rischia però di essere un classico “pacco” pre-elettorale: i fondi sono subordinati a un bando pubblico con annessa gara, non meglio precisata, e la copertura di spesa è genericamente affidata a fondi europei tuttora bloccati da Bruxelles e per i quali la Campania è in debito di proposte alla Commissione europea. Lo spot mediatico è stato però gratuito e di sicuro effetto.

La realtà è che gli 815 lavoratori di Carinaro, e con loro i 600 colleghi dell’indotto, rischiano seriamente di rimanere con un pugno di mosche in mano. Loro non sanno più a che santo votarsi, nonostante l’iconografia cattolica da queste parti sfoci in un kitsch da Reality di Matteo Garrone e le gigantografie di padre Pio incombano su vicoli e piazzette: da un mese a questa parte, non passa giorno che non s’inventino un sit-in, un blocco stradale o qualche altra iniziativa di lotta.

Il primo maggio hanno guidato, tra gli applausi, il tradizionale corteo sindacale napoletano e allo stadio San Paolo, prima della gara del Napoli contro la Sampdoria, hanno convinto il vulcanico presidente doriano Massimo Ferrero a fare un giro di campo con alcuni di loro, portando uno striscione che solidarizzava con la loro battaglia.

Ma l’unico ad avere le idee chiare pare essere Maurizio Landini. Per il segretario della Fiom il governo deve convincersi ad affrontare quella che definisce “la vertenza Campania”, dove la chiusura di Carinaro è solo una delle emergenze: l’unico modo per “far cambiare idea all’azienda è che tutti i dipendenti degli stabilimenti italiani della multinazionale si mobilitino”, in buona sostanza che la protesta esondi dal triangolo industriale ormai desertificato di Carinaro-Marcianise-Teverola.

Si chiama solidarietà operaia ed è grazie a essa che, alla fine del 2014, i lavoratori delle acciaierie di Terni sono riusciti a trasformare la loro vicenda in un caso politico e a spuntarla sulla ThyssenKrupp, il cui piano industriale prevedeva di mandare a casa 550 lavoratori e di spegnere un forno dello stabilimento umbro. È una ricetta vecchia quanto il movimento operaio, ma appare l’unica per rendere visibili ai nuovi padroni americani i fantasmi di Carinaro.

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