21 settembre 2015 15:16

Fayit gira intorno a uno yacht e si avvicina all’officina. Tre operai sono indaffarati attorno a uno Zodiac di otto metri. “È un modello fabbricato in Cina. È stato sequestrato dalla polizia, che ha cercato di renderlo inutilizzabile squarciandolo in diversi punti. È stato recuperato dalla discarica e ci hanno chiesto di rimetterlo in sesto”.

Gli affari vanno bene per Fayit, che nel 2005 ha aperto a Bodrum, sulla costa sudoccidentale turca, la sua impresa di costruzione, vendita e importazione di imbarcazioni. Il lavoro non manca. “Dal mese di agosto non facciamo altro che riparare Zodiac. Ce ne sono sei in attesa”. Anche se dice di non sapere di preciso chi sia il committente, Fayit sa benissimo chi si imbarcherà. “Ci faranno montare 50 profughi”. Altrettante vite in sospeso.

È scesa la notte e le onde si rincorrono sulle spiagge di sabbia sottile. L’acqua ha la temperatura ideale per un bagno di mezzanotte. Il faro del ristorante Fener, nel comune di Akyarlar, illumina a intervalli le sdraio, i catamarani e i windsurf allineati in modo ordinato. Di fronte, a sei chilometri di distanza, si scorge l’isola di Kos, in Grecia. Su queste spiagge è stato scoperto, il 2 settembre, il corpo di Aylan Kurdi, il bambino di tre anni annegato dopo essere caduto da un’imbarcazione di fortuna. Le foto hanno fatto il giro del mondo.

“Ho visto partire la loro imbarcazione”, spiega Ahmet. “Quella notte lavoravo per una troupe televisiva. Il gruppo è emerso dalle tenebre. Si nascondevano nel boschetto dall’altra parte della strada che costeggia la spiaggia. Hanno messo in acqua l’imbarcazione. I trafficanti gli hanno indicato la direzione da seguire e poi li hanno abbandonati a se stessi. Il tutto è durato cinque minuti”.

Aylan non si era imbarcato su uno Zodiac rattoppato, ma su un canottino fatto per sguazzare. “Erano in undici a bordo”, racconta Ahmet. “Il dramma era prevedibile. Sono partite due imbarcazioni contemporaneamente”. Il giorno dopo si contavano undici annegati, tre dispersi e diciassette sopravvissuti.

Negli anni ottanta, dopo il colpo di stato militare, gli oppositori turchi che fuggivano dal paese passavano da qui

Si avvicina un’ombra. Karim, tunisino, fa l’animatore in un albergo “all inclusive”. Golden Beach, Woxxie, Bendis, Armonia… I nomi dei complessi turistici si susseguono sulla costa oltre Bodrum. Di giorno, il sogno. Di notte, l’incubo. Dopo il lavoro, Karim va lungo le spiagge. “Da settimane vedo profughi partire. Le condizioni sono terrificanti. Alcuni partono perfino senza motore. Stanotte è più tranquillo, non ho visto nessuno”.

La commozione provocata dalla pubblicazione delle foto di Aylan Kurdi ha fatto reagire le autorità. Le spiagge non devono assolutamente trasformarsi in cimiteri. La vigilanza è stata “rafforzata”. Due poliziotti osservano le rare automobili che percorrono la strada che separa gli stabilimenti di lusso dalle spiagge. “Io sono originario dell’est della Turchia”, dice un poliziotto. “Ci hanno detto di prendere delle misure preventive. Negli ultimi due giorni sono state interrogate 200 persone”. Due imbarcazioni salpano comunque poco prima dell’alba.

Situata nella regione sudoccidentale del paese, Bodrum è la Saint-Tropez turca, un’immensa marina di gran classe del perimetro mediterraneo, una massa opulenta di edifici bianchi e di tetti rossi che scendono verso la baia. Dalla primavera del 2015, la Tout-Istanbul incrocia migliaia di profughi, in gran parte siriani, pronti a tutto pur di raggiungere l’isola di Kos, porta di ingresso per l’Unione europea.

Il passaggio è noto da tempo. “Negli anni ottanta, dopo il colpo di stato militare, gli oppositori turchi che fuggivano dal paese passavano da qui”, ricorda Ahmet. Esiste un altro passaggio via mare all’altezza di Izmir, ma quello nei dintorni di Bodrum è privilegiato perché ritenuto meno pericoloso, soprattutto d’estate.

“Conosco i rischi”

Dieci del mattino. Il caldo comincia a farsi sentire. Non lontano dai ristoranti rinomati che fiancheggiano la marina, alcune persone si sono radunate in una piazza. Un uomo si avvicina per raccontare la sua esperienza, viene da Idlib, una città vicina ad Aleppo: “Gestivo un supermercato, ma è stato distrutto. Siamo venuti in Turchia quattro mesi fa. Ad Ankara ho chiesto un visto al consolato italiano. Me l’hanno rifiutato”.

Sua moglie rovista in una grande busta di plastica e tira fuori due giubbotti di salvataggio. Tutta la famiglia è pronta per il grande salto. Noor, una bimba di cinque anni, il fratellino di tre anni e l’ultima arrivata, aggrappata al collo del suo papà. La traversata costerà tremila dollari per i cinque membri della famiglia. Ma quando? “Aspettiamo. Ci hanno detto che ci chiameranno”.

Si ferma un’automobile. La circonda un gruppo di bambini. Katie, una maestra inglese, fa parte di un gruppo composto da stranieri e da turchi che raccolgono cibo, prodotti per i neonati, abiti e prodotti per l’igiene. “Ho trascorso due settimane di vacanze in Inghilterra nel mese di agosto. Sono rimasta sconvolta dall’immagine negativa trasmessa dai mezzi d’informazione e dall’assenza di compassione. Arrivano in continuazione nuove famiglie. Le aiutiamo giorno per giorno. Non possiamo fare altro”.

“Certo che conosco i rischi. Come tutti quelli che sono qui”, assicura l’ex gestore del supermercato. Le voci si rincorrono. “Dicono che il governo vuole arrestare i profughi sulla costa per condurli verso i campi allestiti sulla frontiera con la Siria”, afferma Katie. Una falsa notizia diffusa senza ombra di dubbio dalle reti mafiose per spingere la gente a imbarcarsi a tutti i costi.

Fuggire a ogni costo da Aleppo

Direzione Turgutreis, a ovest della penisola. È lì che sono detenute le persone interrogate le notti precedenti. Al porto, gli agenti della guardia costiera contano una trentina di persone dietro le sbarre, sedute a terra o sopra dei giubbotti salvagente. Secondo quanto dice un agente, le autorità turche sono impreparate: mancano risorse, personale, strutture. “Queste persone aspettano qui perché non c’è più posto alla caserma. Dobbiamo solo verificare la loro identità prima di rilasciarli”.

A cento metri si abbronzano i turisti. I loro bambini giocano tra le onde basse. Qualche pescatore beve una birra sul molo. Il patriarca del gruppo di siriani si presenta: Mustafa, farmacista. “Siamo 23 persone, familiari, amici, vicini di casa, tutti partiti da Aleppo venti giorni fa. Siamo passati per Tripoli, in Libano. Siamo arrivati via mare a Mersin. Abbiamo aspettato sette giorni a Istanbul e poi ci hanno detto di andare a Izmir. Ci siamo rimasti cinque o sei giorni. Poi ci hanno detto di venire a Bodrum. Ieri sera abbiamo fatto il nostro secondo tentativo”.

Negli occhi di Sidrah, 18 anni, si legge una stanchezza infinita

È circondato da giovani uomini e donne. Uno è studente di medicina, un altro studia architettura, il terzo è ingegnere. Mustafa continua a raccontare. “La prima volta ci hanno detto che era più prudente fare la traversata in yacht. Costava 2.500 euro a persona. Però hanno voluto imbarcare 220 persone su un piccolo peschereccio. Noi ci siamo rifiutati di salire a bordo”.

Alcuni giovani si avvicinano alla recinzione. Le lingue si sciolgono per spiegare le ragioni della partenza. Ad Aleppo è diventato impossibile vivere. Da due anni non c’è più elettricità. Da tre mesi non c’è più acqua. Cibo e farmaci si comprano a peso d’oro. E i bombardamenti sono incessanti. “Sangue. Morte. Distruzione. La guerra è dappertutto”, riassume Wail, un giovane avvocato. “Vogliamo solo vivere in pace e sicurezza. Non siamo criminali”.

Mustafa riprende a raccontare della notte precedente. “Ieri ci hanno portati alla spiaggia in autobus. Siamo partiti a mezzanotte. Eravamo in 33 su uno Zodiac lungo cinque metri. Una volta a bordo, ci siamo stupiti del fatto che chiedessero ad alcuni passeggeri di guidare. Si sono limitati a indicare una direzione e ci hanno promesso che saremmo arrivati un’ora e mezzo dopo”.

La gente non è stupida

Se le acque dell’Egeo sono calme vicino al litorale, le cose cambiano qualche centinaio di metri al largo. Il vento, le correnti, le onde, l’oscurità provocano il panico a bordo delle imbarcazioni sovraccariche. Sidrah, la nipote di Mustafa, una studente di arte di 18 anni, racconta tutto il suo spavento. “Non so nuotare. Era orribile!”. Sulla terraferma ha ritrovato il sorriso, ma nei suoi occhi, come in quelli dei suoi amici, si legge una stanchezza infinita.

“Ci siamo persi”, racconta Mustafa. “Siamo rimasti per quattro ore in mezzo al mare senza sapere in quale direzione andare. C’erano luci dappertutto. L’imbarcazione era sul punto di rovesciarsi. Ho deciso di chiamare mio fratello che era a terra. Lui ha allertato la guardia costiera turca che è venuta a cercarci”. I trafficanti non si impegnano a condurre a destinazione quelli che spediscono al largo, ma si preoccupano di dargli i numeri di telefono della guardia costiera.

A Bodrum e su tutta la penisola la gente non è stupida. Le notizie circolano rapidamente su internet. Ogni notte annegano delle persone. La maggior parte dei cadaveri non viene ritrovata. “Rischieremo la vita ancora e ancora, perché non è più possibile vivere ad Aleppo”, afferma lapidario Mustafa. Wail conferma: “Continuerò il mio cammino. Sono venuto fin qui per realizzare il mio sogno”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo reportage è stato pubblicato su Mediapart all’interno del progetto #OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri nove giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), VoxEurop, Inkyfada (Tunisia), CaféBabel, BabelMed, Osservatorio Balcani e Caucaso, Migreurop, Resf, Centro Primo Levi, La cimade, Medicins du monde.

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