17 settembre 2016 10:00

Il più influente lobbista del Colorado muove i fili della politica statale da un piccolo ufficio di Windsor, nelle campagne a nord di Denver. Niente in questa cittadina di ventimila abitanti fa pensare a un luogo politicamente rilevante: alle dieci di mattina di un giorno di inizio agosto la strada principale, che di fatto è il prolungamento dell’uscita dell’autostrada, è quasi completamente deserta, e nei palazzi bassi ai lati del viale ci sono soprattutto tavole calde e negozi vuoti. Ma Dudley Brown ha imparato che si può guadagnare più potere stando lontano dai palazzi che cercando di entrarci, magari passando per le elezioni. Sulla cinquantina, con i capelli biondi corti, la corporatura robusta e una pistola di piccolo calibro sempre nella fondina attaccata alla cintura, Brown è il fondatore e direttore esecutivo della Rocky mountain gun owners (Rmgo), la più inflessibile tra le organizzazioni che negli Stati Uniti difendono il diritto al possesso e all’acquisto di armi.

Sulla pagina web e nella newsletter con le offerte di pistole e fucili (che si riceve automaticamente anche solo scrivendo per chiedere informazioni), il gruppo si vanta di essere l’unica “organizzazione a favore delle armi che non accetta compromessi”, e Brown ci tiene a ricordarlo appena ci sediamo a parlare su un divano sistemato al centro del suo studio, davanti a un tavolino di legno con sopra tre sottobicchieri con la bandiera statunitense, un lungo pugnale e un’ascia da battaglia ben rifinita. “Noi facciamo quello che dovrebbe fare la National rifle association”, dice. Si ferma un attimo a pensare, come se stesse cercando una definizione più precisa, poi, indicandomi con il dito, riprende: “Facciamo quello che voi pensate che faccia la National rifle association”.

Brown non perde mai l’occasione di esprimere il suo disprezzo per l’Nra. Secondo lui i dirigenti della più importante e nota lobby delle armi del paese sono troppo concilianti con i politici del congresso e incapaci di difendere il secondo emendamento con la sua stessa fervente ostinazione. Il disprezzo è reciproco. Tempo fa un dirigente dell’Nra ha accusato Brown di usare toni troppo radicali, troppo fanatici, di essere un fondamentalista. In effetti a volte Brown parla come un leader religioso, le sue frasi hanno un impeto messianico che lo porta a sostenere che a nessun americano – uomini, donne, minorenni o sospetti terroristi – dovrebbe essere negato il diritto a possedere un’arma da fuoco, o a pronunciare frasi enfatiche come “se non puoi comprare un’arma sei uno schiavo”.

Dudley Brown, direttore esecutivo della Rocky mountain gun owners, nel suo ufficio a Windsor, il 2 agosto 2016. (Alessio Marchionna per Internazionale)

Alcune delle peggiori stragi da armi da fuoco che hanno colpito gli Stati Uniti negli ultimi vent’anni sono avvenute in Colorado. Il 20 aprile 1999 Eric Harris e Dylan Klebold entrarono nel loro liceo, la Columbine high school di Littleton, a sud di Denver, con un fucile a pompa, una pistola semiautomatica, un fucile da caccia e vari ordigni esplosivi fatti in casa. Spararono e lanciarono bombe per più di venti minuti, uccidendo dodici studenti e un insegnante.

Nel 2007 Matthew Murray uccise quattro persone in due sparatorie separate ad Arvada e a Colorado Springs. Cinque anni dopo, nel luglio del 2012, James Holmes assassinò dodici persone e ne ferì 58 sparando con un fucile semiautomatico AR-15, un fucile a canna liscia Remington e una pistola Glock in un cinema di Aurora, nell’area metropolitana di Denver, durante l’anteprima del film Il cavaliere oscuro - il ritorno. E nel 2015 Robert Lewis Dear aprì il fuoco in una clinica abortista di Planned Parenthood, a Colorado Springs, uccidendo tre persone.

Se nessuna di queste stragi ha convinto il parlamento locale ad adottare misure per limitare in modo significativo la vendita e la diffusione di armi nello stato, il merito è soprattutto di Dudley Brown, e lui non perde occasione per sottolinearlo. Il lobbista misura il suo successo in base al numero di leggi sul controllo delle armi che riesce a bloccare. “Negli ultimi anni abbiamo ottenuto delle vittorie”, dice compiaciuto mentre sprofonda nello schienale del divano. Il suo successo più importante, racconta, è arrivato “dopo la sparatoria alla Columbine”. In quel caso non solo riuscì a respingere gli attacchi dei gruppi per il controllo delle armi ma contribuì a far approvare misure ancora più permissive. Nel 2003, solo quattro anni dopo la strage, il parlamento controllato dai repubblicani approvò una legge che proteggeva il diritto dei cittadini a portare armi nascoste per difendere se stessi e gli altri.

Una casa nel parco di Chautauqua, a Boulder, luglio 2016. (Alessio Marchionna per Internazionale)

Poco dopo la strage di Aurora il parlamento, che nel frattempo era passato sotto il controllo dei democratici, riuscì ad approvare alcune timide misure per limitare la vendita delle armi, come controlli sui precedenti penali degli acquirenti privati e limiti al numero di munizioni acquistabili. La lobby delle armi reagì violentemente: nel 2014 inondò di soldi la campagna elettorale, aiutando i repubblicani a riprendere il controllo del senato. Oggi in tutto lo stato tranne che a Denver è consentito girare per strada con armi d’assalto, nascoste o in vista.

Lo stato degli estremi
In tempi di polarizzazione politica, a prosperare sono soprattutto personaggi estremi come Dudley Brown. E gli Stati Uniti non sono mai stati così spaccati: la distanza economica tra città e zone rurali aumenta, mentre partiti, attivisti e lobbisti cercano di spingere la società in direzioni opposte e inconciliabili.

In Colorado questa schizofrenia politica è cominciata negli anni novanta, quando i cambiamenti demografici ed economici hanno reso più progressista uno stato che fino a quel momento era tradizionalmente conservatore. Oggi è lo stato della lobby delle armi più estremista del paese, ma anche quello che per primo ha legalizzato il consumo della marijuana a scopo ricreativo. Percorrendo poche decine di chilometri si possono visitare alcune delle città più dinamiche e progressiste di tutti gli Stati Uniti, come Denver e Boulder, ma anche zone rurali che sembrano abbandonate a se stesse, dove le infrastrutture e i servizi sono quasi inesistenti, popolate da una classe media impoverita e sempre più conservatrice.

Nell’Art District on Santa Fe, a Denver. Il quartiere ospita gallerie, musei e locali dedicati alla cultura latinoamericana. Agosto 2016. (Alessio Marchionna per Internazionale)

Nel meraviglioso campus dell’università di Boulder lavorano alcuni dei più importanti geologi, astronomi e climatologi del paese, mentre Colorado Springs, sede di molte potenti chiese evangeliche dello stato, è una sorta di Città del Vaticano d’America. Queste contraddizioni disegnano uno stato complesso e interessante, una sorta di rappresentazione in miniatura della politica americana.

L’ossessione di Dudley Brown per le armi riempie le quattro pareti del suo piccolo ufficio di mattoni rossi. Da una parte c’è quello che Kate, la sua devota segretaria, chiama “l’angolo medievale”, decorato da un’enorme spada, un elmo e una mazza ferrata. Appeso sulla parete opposta c’è un vecchio fucile da guerra, un regalo proveniente dall’Afghanistan: “Chissà, magari è stato usato da un mujahidin”, mi dirà Brown poco prima di salutarci. Di fianco c’è una libreria su cui spiccano le foto dei suoi figli, decine di manuali su armi e tattiche militari e, su una mensola al centro, una vecchia bomba a mano. Ma l’orgoglio di Brown è dietro alla sua scrivania: un mobiletto appeso alla parete con le foto dei suoi figli incorniciate sullo sportello. Lo solleva con soddisfazione per mostrare il contenuto: un fucile a pompa Remington a canna liscia. “Non è un’arma particolarmente bella, ma è molto affidabile”, dice.

Anche Kate, la devota segretaria di Dudley Brown, porta sempre con sé un’arma, una Glock 43

Il lobbista non ha problemi a parlare del modo in cui cerca di influenzare la politica. “Per prima cosa, entriamo nelle campagne elettorali e cerchiamo di piazzare persone che la pensano come noi. È così che si condiziona il dibattito politico”, dice con un sorriso ironico, come a sottolineare l’ingenuità di chi crede nella democrazia. “Non ci interessa cosa pensa la gente, ci interessa quello che fanno i legislatori. Una volta che c’è un parlamento eletto, cerchiamo di fare molta pressione su deputati e senatori perché votino come vogliamo noi”.

Cosa intende quando dice “pressione”? “Pressione dai loro elettori: se non voti nel modo giusto facciamo in modo di rimpiazziarti”.

In questo modo negli ultimi vent’anni Brown ha accumulato un’enorme influenza politica, che ha usato per sostenere candidati particolarmente conservatori, contrari a ogni restrizione sulle armi ma anche particolarmente integralisti su temi come l’aborto e i diritti gay. Molti pensano che in questo modo abbia contribuito a spostare il Partito repubblicano del Colorado sempre più a destra, allontanando tanti conservatori moderati e facendo di fatto un favore ai democratici e agli attivisti di sinistra. Una dinamica non molto diversa da quella in corso a livello nazionale, dove negli ultimi dieci anni il Partito repubblicano ha perso il contatto con una società in rapida trasformazione, ha rifiutato ogni compromesso e si è arroccato su posizioni sempre più anacronistiche. E alla fine si è ritrovato con un candidato alla presidenza come Donald Trump, che è malvisto da molti elettori conservatori.

Neanche Dudley Brown si fida di Trump, per il motivo opposto. “Clinton sarebbe aggressiva sul tema delle armi, ma potremmo combatterla in modo efficace. Per noi sarebbe più difficile affrontare Donald Trump, perché è repubblicano, e molti dei nostri iscritti sono repubblicani”. Secondo Brown, Trump ha idee troppo confuse sulle armi – dopo la strage di Orlando, in cui sono morte 49 persone, il candidato repubblicano ha proposto di impedire ai sospetti terroristi di comprare armi, per poi fare marcia indietro – e preferisce combattere la sua battaglia contro un nemico ben definito piuttosto che al fianco di un alleato inaffidabile.

Visita alla Columbine
Kate, la segretaria, entra nell’ufficio per dire a Brown che è ora di andare, è in ritardo per il prossimo appuntamento. Prima di salutarmi, il lobbista ci tiene a esprimere il suo disappunto per le leggi sulle armi in vigore in Italia: “È incredibile che abbiate ottime armi come le Beretta e non possiate usarle”. Rimango nella stanza a curiosare e a parlare con la donna. Ha 62 anni, ha fatto l’insegnante fino a qualche anno fa, poi è andata in pensione ed è entrata nella Rmgo per “difendere i valori americani e la costituzione”. Anche lei porta sempre con sé un’arma, una Glock 43.

Il viaggio da Windsor a Littleton dura poco più di un’ora. Quando arrivo il grande parco al lato della Columbine high school è quasi completamente vuoto. Ci sono campi da baseball, da basket e da tennis, un piazzale con tante panchine e una fontana in mezzo, spogliatoi, una pista d’atletica e prati a perdita d’occhio, apparentemente un posto ideale dove frequentare il liceo. Percorrendo un sentiero in salita si arriva al memoriale delle vittime della strage, un piazzale a forma ellittica. Su una lunga parete di mattoni sono state sistemate decine di lastre di granito su cui sono incise le frasi dei sopravvissuti:

“Un ragazzo della mia età non dovrebbe partecipare a così tanti funerali” (studente).
“Nessuno era preparato per questo, eravamo solo insegnanti che facevano il loro lavoro ogni giorno” (insegnante).
“Non penso che la nostra scuola fosse diversa da qualunque altra scuola d’America” (studente).

Il memoriale della strage alla Columbine high school. Sul muro in fondo ci sono le frasi degli studenti e degli insegnanti sopravvissuti. Littleton, il 2 agosto 2016. (Alessio Marchionna per Internazionale)

Al centro dello spiazzo ci sono dei blocchi di cemento sui cui sono raccontate le storie dei ragazzi uccisi. Kelly Ann Fleming, 16 anni, aspirante poeta e scrittrice. Isaiah Eamon Shoels, 18 anni, aspirante produttore musicale. Lauren Townsend, 18 anni, capitana della squadra di pallavolo, che nel suo diario aveva scritto: “L’umanità sta perdendo contatto con se stessa… c’è sempre bisogno di un grande trauma per avvicinare le persone”.

Scontro sull’aborto

L’appuntamento con Susan Sutherland, vicepresidente dell’organizzazione antiabortista Colorado right to life, è per la mattina alla clinica Planned Parenthood di Stapleton, nella periferia est di Denver. O meglio, fuori dalla clinica. Sutherland, una donna bionda sulla cinquantina, mi aspetta sul marciapiede, a una ventina di metri dall’ingresso. Con lei c’è Terry Sullivan, un uomo anziano con una lunga barba bianca, un cappellino e un cartellone appeso al collo, con sopra un’immagine della Madonna con Gesù e la scritta “lascia che il tuo bambino viva”.

Lungo lo stradone ci sono parcheggiate tre o quattro macchine su cui sono appoggiati cartelloni, alcuni simili a quello di Sullivan, altri accompagnati da fotografie raccapriccianti di resti di feti. Sutherland ha sistemato una grossa scala davanti alla recinzione della clinica e si prepara a fare quello che fa per quattro ore al giorno almeno tre volte a settimana: intercettare le donne che entrano nella clinica e convincerle a non abortire.

In Colorado il diritto all’aborto è il tema su cui gli scontri sono più ideologici e violenti. Nel 1967 questo fu il primo stato a depenalizzare l’aborto nei casi di stupro, incesto o gravidanze che causano danni permanenti alla salute della donna, e oggi ha una legislazione particolarmente permissiva in merito, visto che consente di abortire anche dopo la 24esima settimana di gravidanza. Ma qui hanno sede molti gruppi antiabortisti, organizzazioni ben finanziate, politicamente influenti e particolarmente fanatiche.

“Guardi, somiglia più a un compound militare che a un ospedale”, mi dice Sutherland indicando le alte inferriate che separano la strada dal parcheggio della clinica.

La donna si definisce “una persona religiosa che rispetta la Bibbia”, e l’obiettivo della sua organizzazione è “abolire completamente l’aborto”. La Colorado right to life è nata nel 1967, solo tre mesi dopo che il parlamento dello stato aveva depenalizzato l’interruzione di gravidanza nei casi di stupro, incesto e pericolo per la salute della donna. Da allora il gruppo non è arretrato di un millimetro dalle sue posizioni: crede che l’aborto dovrebbe essere vietato in ogni circostanza e si oppone a qualsiasi forma di controllo delle nascite. “Tutti gli esseri umani hanno diritto alla vita”, mi dice Sutherland. Tranne i detenuti condannati alla pena di morte, “perché la Bibbia dice che è giusto punire i colpevoli e proteggere gli innocenti”.

Oltre a organizzare picchetti e proteste davanti alle cliniche dove si praticano le interruzioni di gravidanza, il gruppo cerca di inserire il divieto di aborto nella costituzione dello stato, sfruttando il fatto che in Colorado è particolarmente semplice raccogliere le firme necessarie per portare una proposta alle urne. Negli ultimi otto anni, insieme ad altre organizzazioni antiabortiste, ha fatto tre tentativi, l’ultimo nelle elezioni del 2014. In tutti i casi la proposta è stata ampiamente bocciata, ma ogni volta con un margine minore (l’ultima volta il 65 per cento degli elettori ha votato contro), a dimostrazione, secondo Sutherland, che i cristiani si stanno svegliando.

Militanti antiabortisti davanti a una clinica Planned Parenthood. A sinistra: Susan Sutherland e Leslie Hanks cercano di parlare con le donne che stanno per entrare nella clinica. A destra: Terry Sullivan. Denver, luglio 2016. (Alessio Marchionna per Internazionale)

Poco dopo ci raggiunge Leslie Hanks, un’altra donna con una lunga militanza antiabortista alle spalle. Ha portato un megafono. Sembra molto curiosa di conoscere i motivi del mio viaggio e soprattutto il mio itinerario. Quando le dico che andrò a Boulder, mette da parte il sorriso di circostanza e assume un’espressione scettica: “Lì c’è la clinica del dottor Warren Hern. Uccide bambini anche un mese prima della nascita”. “È il male incarnato”, le fa eco Sutherland.

Ogni volta che una macchina si immette sullo stradone, le due donne smettono di parlare, prendono il megafono, salgono sulla scala e scrutano oltre la recinzione di ferro, aspettando il momento giusto per rivolgersi alla donna e al suo compagno appena scesi dalla macchina e per convincerli a ripensarci. “Non buttate il vostro bambino nella spazzatura. Avete delle alternative. Vi offriamo un test di gravidanza e cure gratuite, proprio dall’altro lato della strada. Sapete che la fondatrice di Planned Parenthood era una seguace di Adolf Hitler?”.

Nelle due ore che passiamo insieme davanti alla clinica nessuna coppia si ferma a parlare con Sutherland e Hanks. Gli chiedo se pensano davvero che quello sia il modo migliore per promuovere le loro posizioni, e se non rischiano invece di diventare sempre più marginali in una società che sta cambiando velocemente, ma loro non sembrano preoccuparsene: “Uccidere è sbagliato”, mi risponde Sutherland stizzita. Come la guerra di Dudley Brown contro il movimento per il controllo delle armi, la sua crociata contro l’aborto non ha nulla a che fare con le opinioni delle persone, riguarda solo la fedeltà assoluta – “nessun compromesso, nessuna eccezione” – a un principio non negoziabile.

Poco dopo ci raggiunge Leslie Hanks, un’altra militante antiabortista.
Ha portato un megafono

Sono curioso di sapere cosa pensino Sutherland e Hanks di Donald Trump. Mentre parliamo Trump sta andando a Colorado Springs, il Vaticano d’America. Nessun candidato repubblicano può pensare di vincere in Colorado senza il sostegno della destra religiosa, e il miliardario di New York è arrivato nello stato, subito dopo aver ottenuto la nomination, per dimostrare la sua fede. In campagna elettorale si è distinto per la proposta di punire le donne che abortiscono, ma in passato si è più volte definito “favorevole alla libertà di scelta”.

Chiedo a Sutherland e ad Hanks se un’eventuale vittoria di Trump aiuterebbe la loro causa. “Assolutamente no!”, rispondono quasi simultaneamente. “Non ci sono prove che sia contrario all’aborto”, mi dice Sutherland. “Quindi non voterete per lui?”. “Se si presenterà in Colorado voteremo per Tom Hoefling, l’unico candidato sinceramente antiabortista”. Hoefling è un politico del Nebraska che alle presidenziali del 2012 ha ottenuto 40mila voti e si definisce “l’unico candidato che può mettere fine all’olocausto dell’aborto negli Stati Uniti”.

Un medico in prima linea
Poco dopo la discussione s’interrompe di nuovo. Il mio telefono squilla. È il dottor Warren Hern, “il male incarnato”. Abbiamo un appuntamento per il pomeriggio nella sua clinica di Boulder, ma ora chiama per informarmi che è a Denver per lavoro e che può passarmi a prendere in macchina e portarmi nel suo studio. Quando gli dico che sono davanti alla clinica Planned Parenthood di Stapleton e che sto parlando con gli antiabortisti, sta zitto per qualche secondo, poi dice: “Ok, passo a prenderla tra un’ora, ma non davanti alla clinica. Si faccia trovare a qualche isolato di distanza”.

Appena salgo in macchina Hern mi chiede se le donne mi hanno parlato di lui.
“In effetti sì. Non hanno detto cose piacevoli”.
“Lo so, dicono che sono il male incarnato e l’anticristo. Se potessero mi ucciderebbero”.

Hern è una persona fuori dal comune. Prima di tutto per il lavoro che svolge: è uno dei quattro medici in tutti gli Stati Uniti specializzati nelle interruzioni di gravidanza nel terzo trimestre, dopo la 24esima settimana. E poi perché non capita spesso di conoscere un uomo che a 78 anni è ancora in prima linea, in senso letterale. Hern ha dei folti capelli bianchi, poche rughe per un uomo della sua età e un’energia che lo fa sembrare costantemente inquieto e che – unita a una cultura enorme e a una memoria notevole – lo rende un conversatore impetuoso. Se uno sconosciuto entrasse nella stanza durante l’intervista e lo sentisse parlare per venti minuti, probabilmente penserebbe che quell’uomo dall’aria severa sia un docente di storia, o un ecologo, o un antropologo, o un fotografo.

In realtà Hern non ha mai avuto dubbi su quale dovesse essere l’attività a cui dedicare la sua vita. Nel 1961, finito il college, è andato in Africa occidentale al seguito di una missione medica. Tornato negli Stati Uniti si è iscritto alla facoltà di medicina dell’università di Denver, e nei tre anni successivi ha diviso il suo tempo tra gli studi in Colorado e l’attività sul campo in Nicaragua e in Perù, dove ha lavorato con i nativi Shipibo, nella foresta amazzonica.

Dopo la laurea, a metà degli anni sessanta, si è arruolato nei Peace corps e per due anni ha fatto il medico in Brasile. Tornato negli Stati Uniti ha lavorato nell’ente per la pianificazione familiare durante l’amministrazione di Richard Nixon. Nel 1973, quando la corte suprema ha legalizzato l’aborto con la sentenza Row contro Wade, Hern ha “capito che aiutare le donne ad abortire era la cosa più importante che potesse fare come medico”. Ha partecipato alla fondazione della prima clinica abortista privata di Boulder. Poco dopo ne è uscito per via di contrasti con i dirigenti, e nel 1975 ha fondato la Boulder abortion clinic.

Nei discorsi di Hern torna spesso il timore di poter essere ucciso da un uomo armato in qualsiasi momento

Negli Stati Uniti gli aborti nel terzo trimestre sono meno dell’1 per cento del totale, sono impopolari (secondo un sondaggio del 2011 solo il 10 per cento degli statunitensi è favorevole) e sono legali solo in nove stati. È anche per questo motivo che molte delle pazienti di Hern arrivano da altri stati. Alcune vengono anche da altri paesi. Di recente, mi ha raccontato, ha aiutato ad abortire una coppia francese, e in passato ha avuto anche delle pazienti italiane.

Ogni settimana Hern ha in cura tra le otto e le dieci pazienti. “Sono quasi tutte donne al secondo trimestre di gravidanza che hanno appena scoperto gravi anomalie del feto. A volte sono molto giovani, anche 14 o 15 anni, in alcuni casi vittime di stupro o di incesto”. Ad abortire dopo la 24esima settimana sono soprattutto donne che vorrebbero avere un figlio ma hanno scoperto gravi anomalie o disturbi genetici del feto, oppure scoprono che la gravidanza sta mettendo in pericolo la loro salute o hanno disturbi psichiatrici seri. Sono soprattutto questi casi ad aver trasformato Hern nel nemico pubblico numero uno degli antiabortisti. E a renderlo impopolare anche tra gli altri medici di Boulder. “Alcuni colleghi mi sostengono, ma molti altri, a cominciare dalle ostetriche, mi odiano”.

I nostalgici del vecchio mondo
La clinica di Hern si trova in fondo a un vialetto in un’ampia strada alberata non lontana dal centro turistico della città. Dopo aver superato un cancello e un cartello che avvisa che l’area è videosorvegliata, Hern si lascia alle spalle il parcheggio principale – quasi completamente vuoto – e posteggia l’auto in uno spazio più stretto e apparentemente più scomodo ma che, mi spiega appena scendiamo, è molto più sicuro. “Ho fatto ricavare quel parcheggio in modo che la portiera fosse il più vicino possibile all’entrata della clinica. Così esco dalla macchina ed entro subito nell’edificio e non possono spararmi da quel punto”, dice indicando il parcheggio multipiano che si trova a una trentina di metri dalla clinica. “Quelle aperture sono perfette per un cecchino”.

La clinica del dottor Warren Hern a Boulder, nel 2009. (Ed Andrieski, Ap/Ansa)

Il timore di poter essere ucciso da un uomo armato in qualsiasi momento torna spesso nei discorsi di Hern, e ogni volta non si riesce a fare a meno di notare una stonatura tra le sue parole e il contesto: i viali larghi e alberati, le belle ville a schiera con verande e giardini curati, le strade ordinate e pulitissime, non fanno pensare a un posto in cui generalmente potrebbe entrare in azione un cecchino. Oltre a essere una meta turistica tutto l’anno, Boulder è una città particolarmente progressista (qui Bernie Sanders ha battuto nettamente Hillary Clinton durante le primarie democratiche) ed è uno dei posti dove si vive meglio in tutti gli Stati Uniti.

Ma conoscendo meglio la storia della clinica – e degli attacchi contro i medici – l’ossessione di Hern per i cecchini diventa comprensibile. E si capisce anche perché negli Stati Uniti le cliniche dove si praticano aborti, per usare le parole di Susan Sutherland, “somigliano più a compound militari che a ospedali”.

Nel 1985 qualcuno ruppe con un mattone una finestra della clinica. Hern reagì coprendo i vetri rotti con un cartello su cui aveva scritto “questa finestra è stata rotta da quelli che odiano la libertà”. Tre anni dopo cinque proiettili furono sparati attraverso una finestra, e quella volta il medico sostituì tutte la finestre e le porte della clinica con vetri antiproiettile. Nel 1995 l’organizzazione antiabortista American coalition life activists stilò una lista dei medici da colpire. Nell’elenco comparivano decine di nomi, tra cui quelli di Hern e del suo amico George Tiller, un dottore del Kansas specializzato in aborti nel terzo trimestre. Il 31 maggio del 2009 Tiller fu ucciso da Scott Roeder, un estremista antiabortista, che gli sparò un colpo di pistola alla testa a bruciapelo davanti a una chiesa di Wichita.

Hern è sposato con una donna cubana che ha quasi trent’anni meno di lui. Si sono conosciuti nel 2003, durante un convegno a Barcellona

La clinica si sviluppa su due piani. Per esplorarla tutta bisogna superare una serie di controlli di sicurezza che sarebbe normale trovare in una stazione di polizia. Dall’ingresso del piano terra, superata la prima porta a vetri antiproiettile e un cartello in cui si avvertono i pazienti e i loro parenti che i telefoni, le videocamere e altri dispositivi elettronici saranno confiscati, ci si ritrova in un piccolo atrio su cui si affacciano altre due porte, anche queste a prova di proiettili: dalla prima si accede a un’ampia sala d’attesa che comunica con le stanze dove le nuove pazienti ricevono assistenza psicologica; dalla seconda, protetta anche da un codice d’accesso, si entra nell’ala chirurgica. Due rampe di scale decorate dalle foto scattate da Hern in varie parti del mondo portano al piano superiore, dove ci sono le stanze del personale, altre camerette per le pazienti e un’altra sala d’attesa con una porta che dà su una strada laterale.

Anche quell’ingresso, mi spiega Hern, ha avuto bisogno di una ristrutturazione. “Tempo fa ho fatto costruire un cancello e una recinzione tra la strada e la porta d’ingresso perché quello era il punto dove gli antiabortisti si appostavano aspettando che le pazienti arrivassero per aggredirle. Ma quelli si sono semplicemente spostati e hanno cominciato a protestare davanti alle finestre, sull’altro lato”. Poi, indicando un edificio basso che si vede dalle finestre della clinica, dice: “Ho comprato quella casa per motivi di sicurezza. Gli antiabortisti avrebbero potuto usarla per sparare”.

Il dottor Warren Hern nel 2013. (Oscilloscope Pictures/Everett/Contrasto)

Hern è sposato con una donna cubana che ha quasi trent’anni meno di lui. Si sono conosciuti nel 2003, durante un convegno a Barcellona. Lei vorrebbe che il marito andasse in pensione per godersi una vecchiaia tranquilla e un riposo meritato. Hern ripete spesso di essere frustrato per le tante cose che non riesce a fare a causa del lavoro nella clinica: vorrebbe viaggiare di più in Europa, migliorare il suo italiano, approfondire gli studi di ecologia, dedicarsi di più alla fotografia, trovare il tempo per scrivere le decine di libri che ha in mente. Ma è anche convinto di non poter lasciare il suo lavoro. Prima di tutto perché non c’è nessun medico disposto a prendere il suo posto. Nella clinica attualmente lavorano dieci persone, di cui solo un altro dottore, che ha pochi anni meno di lui. “I giovani non vogliono fare questo lavoro, perché hanno paura e perché non è un lavoro prestigioso. I medici ambiscono allo status ancora più che ai soldi, e lo status non si conquista praticando aborti”.

Ma il vero motivo per cui Hern continuerà a lavorare fino a quando ne avrà la forza è che è profondamente convinto di non essere solo un medico. “Negli Stati Uniti è in corso una guerra culturale”, mi dice poco prima di salutarci. “Da una parte ci sono i conservatori religiosi, convinti che le donne e le minoranze non abbiano diritti, che rifiutano la scienza, che vorrebbero tornare al vecchio mondo. Dall’altra ci sono le persone consapevoli che viviamo in un mondo moderno, consapevoli di problemi come il riscaldamento globale, aperte verso le minoranze”. Hern ha sempre concepito il suo lavoro come un modo per arginare quello che lui definisce “l’anti-intellettualismo” dei nostalgici del vecchio mondo, e crede che oggi, nell’era di Donald Trump, la sua attività sia più indispensabile che mai.

La rivoluzione della marijuana

Quando parla di “guerra”, Hern usa un’immagine esagerata ma non molto lontana dalla realtà. Oggi sia nel Partito democratico sia in quello repubblicano le posizioni moderate sono sempre più marginali, e il risultato è che quasi non esiste più un dialogo tra conservatori e progressisti. Né nelle istituzioni, dove è sempre più raro che i democratici sostengano una proposta dei repubblicani o viceversa, né tra i cittadini, che vedono con crescente diffidenza chi vota per l’altro partito.

È una tendenza evidente in Colorado. In generale lo stato diventa sempre più progressista, grazie soprattutto all’aumento della popolazione di origine latinoamericana (passata dal 13 al 21 per cento tra il 1990 e il 2010) e all’arrivo in massa di giovani che lavorano nel settore dell’hi-tech, studiano nelle università locali e cercano fortuna nel business della marijuana. Tra il 1952 e il 2004 i candidati democratici alle presidenziali hanno vinto in Colorado solo due volte, ma nel 2008 e nel 2012 lo stato ha votato per Barack Obama, e secondo i sondaggi oggi Hillary Clinton è favorita. Ma nella politica locale l’allontanamento tra città progressiste e zone rurali sempre più conservatrici ha creato una situazione di stallo, in cui i due partiti si alternano al potere e si impediscono a vicenda di governare: oggi ci sono un governatore e una camera democratici, mentre il senato è in mano ai repubblicani. Non stupisce che negli ultimi anni alcune delle leggi che hanno trasformato profondamente la società siano state il frutto di iniziative popolari. A partire dalla legalizzazione della marijuana.

A pochi chilometri dal centro di Boulder, nella campagne ai piedi delle Rocky mountains, c’è Karing Kind, uno dei rivenditori di cannabis più popolari dello stato. Il proprietario del negozio è Dylan Donaldson, che a 32 anni è un imprenditore di successo è anche una sorta di star: nel 2015 è stato il protagonista di un video del New York Times sul boom della cannabis in Colorado, è comparso nel documentario The marijuana revolution, su History Channel, ed è stato intervistato da decine di siti e giornali di tutto il paese.

Donaldson sembra particolarmente a suo agio nel gestire tutta l’attenzione che riceve. Ha un’aria rilassata ed è sempre sorridente, risponde alle domande misurando attentamente ogni parola, come se volesse rassicurare il suo interlocutore sul fatto che i produttori di marijuana non sono hippy fuori di testa ma imprenditori seri come tutti gli altri.

Ha aperto l’attività nel 2010, dieci anni dopo che i cittadini del Colorado hanno votato per legalizzare il consumo di marijuana per motivi medici. All’epoca aveva 26 anni e l’azienda aveva solo due dipendenti. La svolta è arrivata a novembre del 2012, quando lo stato ha legalizzato anche la produzione e il consumo a scopo ricreativo. “Le vendite sono cominciate a gennaio del 2014, e da quel momento c’è stata una crescita continua. Attualmente abbiamo 16 dipendenti, la produzione è in crescita e gli affari vanno bene”. Quando gli ho chiesto di dirmi una cifra non ha voluto rispondere, ma il sorriso sulla sua faccia lasciava intendere che gli affari vadano molto più che bene. E non solo a lui.

Nel 2015 le vendite di marijuana per uso medico e ricreativo in Colorado hanno quasi raggiunto il miliardo di dollari (trecento milioni di dollari in più rispetto all’anno precedente), e secondo le stime sono destinate a crescere nel 2016. In base a dati aggiornati ad aprile, in tutto lo stato i rivenditori con regolare licenza sono 698, più dei punti vendita di McDonald’s, Starbucks e 7-Eleven messi insieme. Solo a Denver ce ne sono 210, uno ogni tremila abitanti.

L’ingresso del negozio di Dylan Donaldson a Boulder, agosto 2016. (Alessio Marchionna per Internazionale)

Karing Kind si trova in un’enorme prefabbricato di lamiera in mezzo al nulla, al lato della superstrada. Ci si arriva solo in macchina ed è impossibile capitarci per caso. Non sembra il posto migliore dove lanciare un’attività commerciale. In realtà è in una posizione strategica, mi spiega Donaldson, per vari motivi. Per prima cosa perché c’è tanto spazio a disposizione e questo gli permette di non separare la vendita dalla produzione, come sono costretti a fare i punti vendita che si trovano in città. “E poi”, mi dice Donaldson, “i nostri clienti sono soprattutto persone del posto che vogliono discrezione e apprezzano il fatto che siamo in mezzo al nulla”.

Ma il motivo principale ha a che fare con il fisco. Negli Stati Uniti le contee hanno una certa autonomia per stabilire la tassazione sulla vendita dei prodotti al dettaglio. Anche se è a pochi chilometri da Boulder, il terreno dove Donaldson ha aperto la sua attività rientra in un’altra contea, dove le tasse sulla vendita di marijuana sono le più basse di tutto lo stato. Quindi Karing Kind può offrire prodotti di qualità a prezzi più bassi rispetto agli altri rivenditori della città.

Le tasse sono l’argomento su cui insistono di più gli imprenditori della marijuana per dimostrare che la legalizzazione è stata un successo. Quando il parlamento statale ha scritto le norme che avrebbero regolato il settore, ha previsto una tassa ulteriore del 10 per cento sulle vendite. Dall’inizio del 2014, man mano che i rivenditori aumentavano e le vendite salivano alle stelle, decine di milioni di dollari hanno cominciato a entrare nelle casse dello stato. Solo nell’anno fiscale 2014-2015 le autorità hanno raccolto 70 milioni di dollari, quasi il doppio dei soldi ricavati dalle tasse sugli alcolici. Quel denaro è stato usato per migliorare gli edifici scolastici, costruire palestre, dare borse di studio agli studenti, riempire le buche sulle strade, comprare nuovi lampioni, costruire centri per i senzatetto e per altri progetti a sostegno delle comunità.

Donaldson ci tiene a sottolineare il ruolo positivo di Karing Kind a Boulder, non solo per via delle tasse che paga al fisco: ogni anno l’azienda sponsorizza e finanzia decine di concerti e spettacoli al Boulder e al Fox, i due principali teatri della città, e partecipa a progetti per la salvaguardia delle specie protette nelle riserve naturali della zona.

Cambiamento inesorabile
Non tutto, però, sta andando per il verso giusto. In Colorado la legalizzazione della marijuana è arrivata all’improvviso e non tutti erano preparati. I meno preparati erano i banchieri.

Anche se negli ultimi anni molti stati hanno riscritto le loro leggi per consentire la vendita e il consumo di marijuana per uso medico o ricreativo, il possesso di marijuana è ancora un crimine federale. Il Controlled substances act, la legge federale che stabilisce le linee guida sulla produzione e il possesso di droghe, mette la marijuana sullo stesso piano dell’eroina: è illegale in ogni circostanza, anche se usata per scopi medici. Per le banche il solo fatto di consentire alle aziende di questo settore di aprire un conto potrebbe comportare la violazione delle leggi contro il riciclaggio, quindi preferiscono non avere niente a che fare con la marijuana. Lo stesso vale per le aziende che gestiscono i pagamenti, come Visa e MasterCard, che non consentono transazioni sui loro circuiti.

In un video pubblicato dal New York Times a febbraio del 2015 Donaldson viene ripreso mentre impacchetta decine di migliaia di dollari e li carica in macchina per depositarli in una località segreta in mezzo alle Rocky mountains, accompagnato da due guardie armate con fucili semiautomatici (dopo la legalizzazione anche gli affari delle compagnie di sicurezza private sono saliti alle stelle).

Sulle Rocky mountains, in Colorado, luglio 2016. (Alessio Marchionna per Internazionale)

Un anno e mezzo dopo, mi dice Donaldson, la situazione è un po’ migliorata. È riuscito ad aprire un conto in una piccola banca del posto. Non è più costretto a spendere centomila dollari all’anno in guardie private e a nascondere i soldi in casseforti in mezzo alle montagne. Ma i clienti possono pagare solo in contanti, e avere sempre tanti soldi nel negozio non lo fa stare tranquillo. “Abbiamo ancora una guardia che sorveglia la proprietà 24 ore su 24”.

Quando Donaldson ha aperto la sua attività, sei anni fa, non tutti nella comunità approvavano quello che faceva. “Siamo stati minacciati, qualcuno ha anche piazzato degli ordigni esplosivi vicino alla proprietà”. Ma poi la situazione è migliorata. “Con il passare del tempo le cose cambiano: le persone imparano di più su quello che facciamo, sui nostri prodotti. Il modo in cui la società ci guarda, la cultura in generale, sono destinati a cambiare”.

Donaldson non sembra il tipo interessato ai dibattiti politici, ma la sua idea di cambiamento coglie meglio di tante altre il senso di quello che sta succedendo in Colorado, e anche altrove. Dopo la legalizzazione della marijuana migliaia di persone (soprattutto giovani) sono arrivate da altri stati per partecipare al boom. In questo modo la società si sta trasformando dal basso, nonostante gli scontri ideologici e lo stallo politico. Un processo che somiglia sempre di più al futuro degli Stati Uniti.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it