22 agosto 2016 13:57

Mazlum Balibay asfalta le strade del Giappone, scava le sue fognature e dispone le sue condutture idriche: fa tutto questo per un paese che non lo vuole.

Balibay ha 24 anni ed è un richiedente asilo curdo che si è rifugiato in Giappone più di otto anni fa, dopo aver dichiarato che la sua famiglia era perseguitata dalle forze di sicurezza turche che hanno torturato suo padre. Da allora è in una sorta di libertà provvisoria dal centro di detenzione per migranti. Questo significa che non gli è consentito lavorare fintanto che le autorità non si saranno espresse sulla sua domanda d’asilo, e che rischia in qualsiasi momento di essere nuovamente incarcerato.

“Il Giappone ci proibisce di lavorare ma tutti sanno che senza gli stranieri il paese sarebbe nei guai”, spiega Balibay. “L’edilizia si fermerebbe. Non ci sono abbastanza operai e i giovani giapponesi non sono in grado di fare questi lavori. Il governo lo sa meglio di chiunque altro”. Anche due fratelli di Balibay hanno lavorato senza permesso per alcuni cantieri finanziati dal governo, vicino a Tokyo, stendendo asfalto e scavando fognature.

La ricetta di Abe

La profonda diffidenza del Giappone nell’accettare lavoratori migranti si scontra oggi con la realtà di una popolazione che si riduce e con la peggiore carenza di manodopera del paese in più di due decenni. In un paese geloso della sua uniformità culturale, i politici sono restii a ridurre le barriere all’immigrazione nonostante il numero di pensionati aumenti e la popolazione in età da lavoro diminuisca.

A settembre il primo ministro Shinzo Abe ha dichiarato ai giornalisti presenti alle Nazione Unite che il Giappone dovrebbe affrontare i suoi problemi demografici facendo lavorare un maggior numero di donne e pensionati, prima di prendere in considerazione gli immigrati.

Masahiko Shibayama, deputato e consigliere speciale di Abe, ha spiegato che esiste “un’allergia alla parola ‘immigrazione’ in Giappone”. La gente è preoccupata per la pubblica sicurezza. Teme che i lavoratori stranieri possano togliere posti di lavoro ai giapponesi, ha aggiunto.

Con l’avvio dei lavori per le Olimpiadi di Tokyo 2020, la domanda di manodopera è destinata a salire ulteriormente

Ma la combinazione di dure leggi sull’immigrazione e di una forza lavoro in calo ha generato un mercato nero del lavoro, soprattutto nell’edilizia, quello in cui lavorano Balibay e i suoi fratelli. Anche il settore manifatturiero si rivolge sempre di più ai richiedenti asilo: per esempio il boom della casa automobilistica Subaru è dovuto in parte al suo ricorso a lavoratori a basso costo provenienti dall’Asia e dall’Africa, che chiedevano di essere riconosciuti come rifugiati in Giappone.

Gli imprenditori, tuttavia, vogliono che il governo ripensi la sua politica sull’immigrazione. Su 259 grandi aziende giapponesi che hanno risposto a un questionario a ottobre, il 76 per cento si è dichiarato a favore dell’apertura del paese ai lavoratori immigrati.

Con l’avvio dei lavori per le Olimpiadi di Tokyo 2020, la domanda di manodopera è destinata a salire ulteriormente, secondo Hitoshi Ito, dirigente di Kajima, la seconda azienda edilizia del Giappone come fatturato. È per questo che il settore è “alla disperata ricerca” di lavoratori stranieri, ha spiegato.

Un operaio curdo in un edificio demolito a Chiba, il 21 ottobre 2015. (Thomas Peter, Reuters/Contrasto)

Balibay fa parte di una comunità di circa 1.200 curdi che vivono a Warabi e Kawaguchi, grigie periferie operaie a nord di Tokyo, le cui strade sono disseminate di fonderie di ghisa e dove imperversano le bande criminali. Il quartiere è stato ribattezzato “Warabistan” dagli abitanti a causa dell’alto numero d’immigrati curdi che vi vivono, quasi tutti richiedenti asilo. Vivono in un limbo legale, costretti a una lunga lotta con un sistema migratorio che l’anno scorso ha riconosciuto come rifugiate solo 27 persone.

Paradossi burocratici

Nel 2015 il Giappone ha esaminato 13.831 domande d’asilo. Sono numeri bassi per i parametri europei, dove alla fine d’aprile erano state presentate oltre un milione di domande d’asilo, legate a rifugiati provenienti dalla Siria e dall’Eritrea. Ma si tratta di un numero record per un paese insulare come il Giappone. Secondo gli ultimi dati disponibili, alla fine del 2015 c’erano 4.071 persone in libertà provvisoria dai centri di detenzione per i migranti in Giappone. Di questi, secondo le associazioni non governative, circa quattrocento sono curdi che vivono a Warabi.

Il ministro della giustizia Mitsuhide Iwaki, che si è appena dimesso nel quadro di un rimpasto ministeriale, si è rifiutato di rispondere alle domande relative alla presenza di alcuni richiedenti asilo in libertà vigilata che lavorano in cantieri finanziati dal governo. Naoki Torisu, un funzionario del ministero della giustizia, che si occupa dei permessi di lavoro per gli stranieri, ha dichiarato: “Che si tratti o meno di cantieri di lavori pubblici, non è auspicabile che le persone in libertà provvisoria svolgano attività non consentite. Desideriamo che la cosa finisca”.

La maggior parte dei curdi in libertà provvisoria lavora senza contratto, riceve la paga in contanti e può essere licenziata senza preavviso. Non hanno una copertura sanitaria nazionale, il che mette spesso queste persone di fronte a una scelta atroce quando si ammalano loro o un loro familiare: indebitarsi o rinunciare alle cure mediche. Balibay è il principale sostegno di una famiglia allargata che comprende sua madre, due dei suoi quattro fratelli, una sorella, suo marito e il loro figlio piccolo. Guadagna circa 2.500 dollari al mese, insufficienti a coprire le spese della famiglia.

La famiglia sostiene che le sue fatture mediche non pagate ammontino a varie migliaia di dollari. Lo scorso anno il fratello di sette anni di Balibay, Deniz, è stato ricoverato per una polmonite. Il costo è stato di 5.500 dollari.

Legami con la madrepatria

Secondo la legge giapponese, i richiedenti asilo non possono essere espulsi finché la loro domanda è in corso di valutazione. Alcuni attivisti che si occupano d’immigrazione affermano che il Giappone non ha mai garantito lo status di rifugiato a un curdo di Turchia. I funzionari governativi non hanno spiegato se qualcuno dei 3.463 cittadini turchi che hanno fatto domanda d’asilo dal 2008 abbia mai ottenuto lo status di rifugiato.

La mancanza di permesso di lavoro non ha impedito a Balibay, a due suoi fratelli e a un suo cugino di lavorare in cantieri finanziati con fondi pubblici negli ultimi anni. Balibay scorre le immagini presenti sul suo cellulare e si ferma a mostrare le foto di un cantiere stradale nel quale ha lavorato lo scorso anno a Warabi.

A differenza di molti funzionari, il sindaco di Kawaguchi, Nobuo Okunoki, non vuole giocare al poliziotto. “Non sarò io a dire a queste persone che non possono lavorare. Tutti abbiamo il diritto di vivere e queste persone hanno famiglie da mantenere”, ha dichiarato.

Le persone in libertà provvisoria non hanno il diritto legale di affittare appartamenti, aprire conti in banca o sottoscrivere contratti di telefonia mobile a loro nome. Così prendono a prestito i nomi e i dati personali di parenti o amici che hanno un permesso di soggiorno.

Mazlum Balibay mostra il suo tatuaggio, a Tokyo, il 3 ottobre 2015. (Thomas Peter, Reuters/Contrasto)

Hanno bisogno di un permesso ufficiale anche per uscire dal territorio della loro prefettura. Le autorità giapponesi hanno concesso questo permesso quando avevano bisogno dell’aiuto dei curdi dopo il terremoto e lo tsunami che hanno devastato la regione nordoccidentale del paese l’11 marzo 2011. Secondo l’Associazione giapponese per i rifugiati, a un gruppo di uomini curdi, alcuni dei quali in libertà provvisoria, che si sono offerti volontari per aiutare nei soccorsi, è stata garantita un’autorizzazione ufficiale per recarsi nelle zone più gravemente colpite.

I volontari curdi, molti con esperienza nel campo dell’edilizia e della demolizione, si sono recati a Rikuzentakata, una delle zone più colpite. Il villaggio costiero era stato inghiottito da un’onda di quindici metri che ha ucciso 1.700 persone e ha spazzato via migliaia di edifici. “Non sono andato lì per avere qualcosa in cambio”, spiega Mahmut Colak, un richiedente asilo curdo in libertà provvisoria. “Semplicemente ho provato dolore per le persone di Rikuzentakata. Sapevo che le autorità non mi avrebbero dato un visto”.

Akinobu Kinoshita, direttore di International construction consulting, una ditta di Tokyo, sostiene che ci siano varie decine di richiedenti asilo curdi che lavorano nel settore della demolizione in cantieri della capitale gestiti dalla sua azienda. La maggior parte di loro hanno permessi di lavoro di sei mesi rinnovabili. Kinoshita ha dichiarato che gli permette di lavorare “per compassione”, dal momento che hanno bisogno di guadagnarsi da vivere.

Se i lavoratori vengono sorpresi nei suoi cantieri senza permesso, Kinoshita rischia una multa che potrebbe arrivare a trentamila dollari e una condanna a tre anni di detenzione. Il governo giapponese ha affermato di non possedere dati sul numero di aziende sanzionate per il loro ricorso alla manodopera illegale.

Più donne nei cantieri

Nell’impellente bisogno di attirare lavoratori giapponesi nei suoi cantieri, il ministero del lavoro si è associato ad alcune aziende edilizie per creare un sito web promozionale. L’obiettivo è quello di convincere i giovani giapponesi a lavorare in questo settore. Il sito mostra un gruppo di giovani donne sorridenti e in elmetto protettivo, con una scritta che dice: “Le donne che lavorano nell’edilizia sono forti!”.

Alcuni funzionari del ministero ammettono che lo sforzo di comunicazione non ha fatto molto per rendere attraente il settore. E mentre Abe fatica a rivitalizzare l’economia, il Partito liberaldemocratico al potere ha lanciato una proposta sul suo sito, per creare un sistema in grado di attirare lavoratori stranieri in settori come l’infermieristica e l’agricoltura. Ma il partito ha fornito pochi dettagli e ha nascosto la proposta in fondo al suo manifesto politico.

Torisu, il funzionario del ministero della giustizia, ha dichiarato che non è prevista alcuna modifica al sistema di libertà provvisoria. “Il fatto che le persone siano in libertà provvisoria non cambia la nostra posizione, ovvero che debbano tornare a casa loro”, ha chiarito.

Quasi un decennio dopo essere arrivato in Giappone, Balibay non ha grandi speranze di poter, un giorno, essere riconosciuto come rifugiato dal suo paese d’adozione. Dopo dieci ore in cantiere si rifugia in un mondo lontano, trascorrendo le sue notti su YouTube a guardare filmati di giovani uomini curdi che combattono il gruppo Stato islamico in Siria. “Non posso pensare al domani”, spiega.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dall’agenzia britannica Reuters.

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