23 dicembre 2016 19:00

Ci sono fenomeni che sembra impossibile poter guardare nel dettaglio. Sembrano destinati ad avere una natura massificata.

Camminando nella piana di Gioia Tauro, negli agrumeti intorno a Rosarno, abbiamo riflettuto molto su questo. Se guardiamo gli scaffali infiniti dei supermercati, o i tir stracolmi di cibo che solcano le autostrade o i container nei porti e negli aeroporti, o i buffet sempre pieni di ristoranti sempre uguali, ma anche se pensiamo alle tendopoli di stato con centinaia di baraccati, alle navi militari con la pancia piena di naufraghi pronti a diventare richiedenti asilo, agli alberghi, ai residence e alle caserme trasformati in centri di interminabile emergenza, se pensiamo a tutto ciò, come facciamo a cercare spazi di dignità e rispetto per la vita umana?

Tutto sembra dentro a una macchina destinata a schiacciare e incasellare, una macchina dentro alla quale hai una sola possibile posizione: aspettare di poter consumare. Dove consumare significa anche consumarti e dove poter trovare uno spazio per raccontare o addirittura proporre una tua scelta è davvero difficile. I produttori di agrumi che abbiamo incontrato nei campi di clementine non raccolte o i migranti della tendopoli e dei casolari di campagna hanno questo in comune: sanno di non poter scegliere, di poter solo aspettare. L’attesa di lavorare, l’attesa di mangiare: il cibo che nutre o che ti mangia?

Proviamo una sensazione di angoscia, che rimanda a quella di tutti noi che spesso facciamo fatica a capire come esprimere una nostra posizione, come differenziare le nostre scelte in base a idee e valori. Lo possiamo fare intellettualmente, ma nella vita quotidiana, nelle scelte materiali legate agli acquisti, ai consumi, ai nostri comportamenti è davvero faticoso. Possibile a volte, ma sempre troppo faticoso per poter diventare normale.


Perché c’è una macchina più grande di noi che ci chiede solo di aspettare, produrre, acquistare, consumare, scartare, sprecare.

Ma questa macchina c’è e deve esserci o ci siamo abituati a considerarla inevitabile?

È pensabile ridurre la scala per sentirci meno consumatori e più persone con diritti, doveri, dignità?

Questo in fondo siamo andati a cercare nella piana, uno dei luoghi in Italia maggiormente feriti dalle conseguenze di questa macchina. E qualche risposta abbiamo cominciato a trovarla.

Accomunati dalla stessa sorte, per gli “scarti” alimentari e umani che abbiamo visto e conosciuto nei campi agricoli e profughi della piana c’è una possibilità di riscatto. Possibilità che passa per un’assunzione di responsabilità di tutti noi sul senso di giustizia. Che è un fine, non uno strumento come invece è il mercato: la macchina che ci guida, invece di essere guidata da noi.

Per gli agrumi, ma ciò vale per le olive e in genere per tutti gli alimenti, se non c’è un prezzo giusto che remunera tutti gli attori della filiera, gli effetti collaterali colpiscono soprattutto gli anelli più deboli, più esposti e meno protetti dalla società: braccianti e agricoltori.

Il mercato, questa istituzione così astratta ma concreta nel suo effetto sulle nostre vite, è come le bombe: non c’è un bombardamento intelligente e gli effetti collaterali sono sempre devastanti, talvolta irreparabili.

Legalità e trasparenza
E allora la responsabilità di noi consumatori – non più etimologicamente distruttori, ma fruitori consapevoli dei beni – passa per due parole chiave che valgono per il cibo e per gli altri beni indispensabili per vivere, lavorare, mangiare: legalità e trasparenza. Una filiera equa e sostenibile funziona se ci allontaniamo dalla logica del massimo ribasso, se promuoviamo un prezzo trasparente e un’etichetta narrante. Basta con le aste della grande distribuzione che mettono in competizione i già deboli produttori. Indichiamo il prezzo sorgente che ci mostra quanto è stato pagato il produttore, e quanto è il ricarico del distributore. Togliamo dalle etichette tutte quelle informazioni inutili che a volte confortano le nostre coscienze, ma in realtà ci confondono: chiediamo di conoscere la vera identità di quel prodotto, la sua storia.

Se chiederemo e otterremo questo, il valore del cibo, che non è una merce ma un bene, e di chi lo produce per noi, che è un uomo, sarà finalmente riconosciuto.

Un’azione chiara che potrà dare energia a soggetti piccoli ma virtuosi che producono mettendo al centro la dignità: della persona, di tutte le persone, e del lavoro. Anche dei braccianti stranieri, che non possono continuare a essere ammassati in luoghi disumani come la tendopoli di San Ferdinando, ghetto di stato dove ogni dignità è lesa e l’illegalità sembra l’unica via d’uscita. Decine di comuni nella piana di Gioia Tauro hanno decine di case sfitte, ma solo 1 su 33 ha creato un progetto di integrazione dei braccianti stranieri. Gli altri nulla e perché? Perché non ci sono i mezzi di trasporto, dicono.

Ma quanto meno costerebbe avviare linee di trasporto pubblico per tutti, anche per gli italiani, invece di costruire tendopoli da centinaia di migliaia di euro destinate a umiliare le vite dei braccianti e la nostra civiltà?

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