13 giugno 2016 15:43

Il bel quartiere francese – case tardo settecentesche e ottocentesche, muri colorati, eleganti terrazze di ghisa e musica jazz – è percorso da grosse e grasse ondate di turisti in cerca di colore locale, suggestioni sonore ed ebbrezze alcoliche.

New Orleans sembra travolta dal proprio mito. Di sera Bourbon street, la via più nota, è un fiume di gente ondeggiante che tiene in mano qualcosa da bere mentre una piena di suoni e ritmi si riversa dalle porte aperte dei locali. Del resto questo è uno dei pochi posti negli Stati Uniti dove è permesso consumare alcolici per strada, e nel quartiere c’è chi comincia a offrire tre cocktail al prezzo di uno già all’inizio del pomeriggio.

Bourbon street, New Orleans, giugno 2016. (Annamaria Testa)

Oggi il quartiere francese rischia di trasformarsi in una scenografia turistica, tanto sgangherata da appannare perfino le suggestioni letterarie e quelle musicali più permanenti. La città che appartiene ai new orleanian comincia nel quartiere degli affari, al di là di uno stradone, e con il quartiere francese sembra avere scarsissimo contatto.

Tuttavia, se si riesce a scansare la ressa, camminare per il quartiere francese può essere piacevole. Basta evitare i cento negozietti di souvenir, annusare i mille odori di cibo del mercato ignorando la merce omologata che c’è sui banchi (unico punto di verità territoriale: le teste imbalsamate di alligatore in vendita a pochi dollari) e confidare in un po’ di serendipità.

Nel quartiere francese, New Orleans, giugno 2016. (Annamaria Testa)

Può così succedere di entrare per caso nel Pharmacy museum: è la casa di Joseph Dufilho Jr, il primo ad avere la licenza di farmacista negli Stati Uniti agli inizi dell’ottocento. Sono due piani di suppellettili, farmaci, alambicchi, attrezzature mediche e impressionanti strumenti chirurgici del passato. Dentro c’è la storia di un intero territorio e della sua gente, raccontata attraverso salute e malattia.

La febbre gialla e il vaiolo. Le pratiche per il parto. Le epidemie portate dai marinai. Le erbe e le droghe, i rimedi della medicina ufficiale e quelli degli stregoni vodoo, gli occhiali.

Vale anche la pena di prendersi il tempo di leggere le spiegazioni, che sono numerose ed esaurienti. Poi uno esce ed è felice di vivere nel ventunesimo secolo.

Se siete fan di The Knick potreste passarci delle ore.

Pharmacy museum, New Orleans, giugno 2016. (Annamaria Testa)

Forse solo riannodando i fili di storie di vita è possibile, al di là della seduzione musicale immiserita dalla ripetizione dei pezzi più facili e riconoscibili e dalla deriva alcolica e consumistica, rientrare in contatto con un ormai esile, e tuttavia permanente, genius loci.

Pochi turisti, per esempio, si aggirano per le stanze e il giardino del convento delle orsoline, l’edificio più antico di tutta la valle del Mississippi.

Ma dentro si trova la sorprendente storia di un manipolo di giovani monache partite tutte da sole dalla Francia nel 1727 e approdate tra i cajun dopo un terribile viaggio in nave, durato mesi. Di una statua miracolosa che ferma le fiamme. Della prima scuola femminile per le native americane e per le schiave afroamericane.

Un’altra curiosa storia di vita appartiene a Frances Parkinson Keyes, sposa poco più che adolescente di un anziano senatore conservatore e prolifica autrice di (temo melensi) romanzi ambientati nel sud: la si può ricostruire visitando la sua casa, tra bambole vestite da suora (la signora si converte con molta convinzione al cattolicesimo) e collezioni di veilleuse (ingegnose teiere da notte, riscaldate da un lumino), abiti e memorabilia, e remoti scintillii della mondanità locale e internazionale.

Non molti sanno che tra il 1890 e il 1910 una grande ondata migratoria si mosse dalla Sicilia verso New Orleans, tanto che il Lower french quarter fu battezzato Little Palermo. La città è seconda negli interi Stati Uniti, dopo New York, per presenza italiana: c’era una linea diretta di navi a vapore per il trasporto dei migranti da Palermo a New Orleans.

La muffuletta, un panino ripieno di provolone, salame e olive, era il pasto che i braccianti italiani si portavano al lavoro. Ancora oggi viene celebrata e riproposta come tipica squisitezza locale.

New Orleans, giugno 2016 (Annamaria Testa)

Dunque, agli inizi del secolo scorso schiere di siciliani coltivavano frutta e lavoravano alla costruzione delle nuove ferrovie. Le strade di New Orleans cominciarono a somigliare a quelle del nostro sud: panni stesi e signore in nero sedute a prendere il fresco.

New Orleans (Annamaria Testa)

Del resto il clima e la cultura cattolica della Louisiana aiutavano a sentirsi a casa e invitavano a chiamare i parenti, anche se c’era conflitto con gli irlandesi, già insediati nella città, e se la discriminazione restava forte (alla fine dell’ottocento, undici italiani furono linciati).

Catturo queste notizie e l’immagine che vedete qua sopra all’American italian cultural center. È deserto. Ci guida una volonterosa fanciulla che parla a stento la nostra lingua. Scatto un’altra foto alla riproduzione dell’altare di San Giuseppe: una tradizione portata dalla Sicilia, che si rinnova qui ogni 19 marzo.

È una festa di cibo, dolci e preghiere per scongiurare la siccità, molto apprezzata, sotto il profilo gastronomico, anche dai non italiani e non cattolici: guardate questo articolo. E scoprite tutte le credenze connesse (a cominciare da “se rubi un limone trovi marito”) in quest’altro.

Una riproduzione dell’altare di San Giuseppe, New Orleans, giugno 2016. (Annamaria Testa)

L’ultima immagine che voglio lasciarvi, però, è quella dell’intraprendente senzatetto (ne ho visti così tanti solo a San Francisco) che sventola il cartello con la scritta “Fuck Trump”. Un esperto di marketing direbbe che “segmenta il target” grazie a una chiara “unique selling proposition”.

È una delle pochissime tracce delle prossime elezioni presidenziali che trovo girando per la Louisiana.

E come non sganciargli un paio di dollari, a questo simpatico signore?

New Orleans, giugno 2016 (Annamaria Testa)

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