20 agosto 2016 14:19

Abu Sow si è stufato di lavorare nei campi. “Non ha più senso raccogliere i pomodori per quattro soldi. Bisogna cambiare”. Alto quasi due metri, magro come un chiodo, questo senegalese sulla cinquantina ha un sorriso discreto stampato su un volto dai lineamenti asciutti. Con il tono pacato dell’esperienza, ci racconta che è in Italia dal 1998. “Quasi vent’anni, in cui ho stretto relazioni e mi sono fatto conoscere. Tutti sanno che si possono fidare di me qui nella Capitanata”.

Nelle campagne del foggiano, dove trascorre almeno metà dell’anno, comanda squadre di braccianti impegnati nella raccolta di pomodori. Tecnicamente, Abu Sow è un caporale. È lui che ha i rapporti con gli imprenditori agricoli, organizza i turni e trasporta i braccianti sui campi con il suo furgone. In cambio ottiene una percentuale sui guadagni – “20 centesimi per ogni cassone da tre quintali, a fronte dei 3,50 euro che spettano al bracciante” – e un’ulteriore somma per il trasporto dalle abitazioni ai campi – “due euro a persona”.

Intorno alla masseria semidiroccata che un proprietario terriero gli ha dato in uso per ospitare la sua squadra di stagionali, il clima sembra rilassato. Siamo al tramonto. I lavoratori bevono il tè e discutono tra loro in lingua wolof. Qualcuno prepara la cena. Abu saluta tutti e da tutti è ricambiato con un misto di calore e devozione: si vede che è il leader di questa piccola comunità temporanea, riunita qui per tirare su il pomodoro maturo da quei campi in cui ancora non è stata avviata la raccolta meccanizzata.

La raccolta dei pomodori in provincia di Foggia. (Stefano Liberti)

Come un’agenzia interinale

Abu Sow esercita un potere senza costrizioni. È il più anziano del gruppo, ma soprattutto è colui che garantisce il lavoro. Quando parla del suo ruolo, si descrive come una specie di agenzia interinale, l’indispensabile anello di congiunzione tra braccianti e aziende agricole. “Io metto insieme la squadra e la porto al campo. Gli imprenditori chiamano me perché sanno che gli garantisco un buon servizio”.

Il sistema del caporalato in Puglia – e in tutto il sud Italia – non è nato con l’arrivo dei braccianti stranieri, africani di varie nazionalità ma in numero sempre maggiore romeni e bulgari. È parte integrante dell’organizzazione del lavoro da queste parti. “Il caporale è l’unico che mi garantisce una manodopera di un tot di persone da un giorno all’altro, assicurando anche il trasporto dalle loro abitazioni ai campi”, conferma un imprenditore agricolo che preferisce non essere citato per nome. “Si scrivono troppe sciocchezze. Dicono che sfruttiamo gli stranieri, ma la realtà è ben diversa”.

È un universo in cui i rapporti di lavoro non si definiscono in base a contratti ma a consuetudini e strette di mano

Sia l’anonimo imprenditore sia Abu Sow descrivono un mondo meno brutale di quello che normalmente è dipinto; parlano di “caporalato” come di un sistema di organizzazione parallela assolutamente normale in un territorio dove lo stato è assente o ha difficoltà a svolgere un efficiente ruolo di intermediazione tra richiesta e offerta di manodopera.

È un universo in cui i rapporti di lavoro si definiscono non in base a contratti ma a consuetudini e strette di mano; un territorio dove il proprietario terriero talvolta permette ai braccianti stranieri di vivere nei ruderi che sorgono sulle sue terre e in cui il caporale svolge un ruolo effettivo e apparentemente imprescindibile nella relazione tra il lavoratore e il datore di lavoro.

Abu Sow respinge l’immagine dei caporali aguzzini che approfittano dei braccianti schiavizzati. Dice che quelli sono casi estremi, delinquenti che sfruttano immigrati inesperti appena arrivati sul territorio. Lui si considera un semplice caposquadra. Lavora con i suoi nei campi e si assicura un guadagno che giudica adeguato al servizio di intermediazione che svolge. “Altri magari ci marciano. Prendono cinque euro per il trasporto o 50 centesimi a cassone. Ma il sistema ormai non funziona più: c’è meno lavoro e ci sono più controlli. È necessaria una maggiore regolamentazione”.

L’oro rosso non vale più nulla

Di primo acchito, sembra di sentir parlare un pappone che fa campagna per la legalizzazione della prostituzione. Ma Abu Sow ne fa una questione di carattere quasi esclusivamente economico. “Non conviene più lavorare in queste condizioni”. Dice che vorrebbe costituire una cooperativa e sfruttare le sue relazioni consolidate con le aziende (i padroni, come continua a chiamarli) per avviare rapporti di lavoro strutturati e legali per la sua squadra. “Dobbiamo far valere i nostri diritti e organizzarci in un mercato che è sempre più ristretto. Altrimenti, meglio lasciar perdere. Nei campi c’è sempre meno lavoro. È finita l’epoca d’oro”.

Mbaye Ndiaye, presidente della cooperativa Africa-Di Vittorio nel cortile di Casa Sankara. (Stefano Liberti)

Il pomodoro non è più l’“oro rosso” di una volta. Ormai è svenduto quasi a prezzi di produzione. Quest’anno, le industrie di trasformazione e le organizzazioni dei produttori del sud Italia hanno chiuso il contratto a 8,7 euro a quintale per il tondo e a 9,7 per il lungo, circa un euro in meno rispetto al 2015. Se si considera che il costo medio per rendere produttivo un ettaro di terreno è di ottomila euro e che le rese medie sono di 800-900 quintali a ettaro, basta una semplice moltiplicazione per vedere che i margini sono minuscoli. Una resa leggermente inferiore può mandare all’aria un’intera annata. Così le superfici coltivate si riducono, molti preferiscono cambiare coltura. O si risparmia forsennatamente sui costi: “Nei primi anni 2000, il cassone era pagato cinque euro. Ora è arrivato a 3,50”, analizza Abu Sow.

Ma il vero cambiamento degli ultimi anni è la crescita della raccolta meccanizzata, affidata per lo più ad aziende di contoterzisti che assicurano il raccolto a circa un quarto del già misero prezzo pagato ai braccianti stranieri. “Ormai poco meno del 10 per cento del pomodoro coltivato in Puglia è raccolto a mano”, sostiene Angelo Leggieri, agronomo e consulente di varie aziende agricole. La stessa cifra è confermata da tutte le organizzazioni di produttori e dalle industrie di trasformazione.

L’obiettivo è per tutti lo stesso: riempire il maggior numero di cassoni possibile, con o senza contratto

I costi minori, il rischio in cui si incorre nel far lavorare braccianti al nero, l’attenzione mediatica sullo sfruttamento degli stagionali e il reato di caporalato, introdotto inizialmente e poco efficacemente nel 2011 e attualmente in ridefinizione con un disegno di legge in parlamento (approvato in senato in prima lettura il 1° agosto, deve essere votato alla camera dopo la pausa estiva) sono tutti elementi che hanno prodotto questo mutamento nelle campagne del foggiano, sulla scorta di quanto già accaduto diversi anni fa nel distretto del pomodoro del Norditalia, tra Parma e Piacenza, dove la raccolta è meccanizzata al 100 per cento.

La nuova legge “anticaporalato” attribuisce la responsabilità non solo al caporale ma anche ai datori di lavoro che sfruttano i braccianti, con sanzioni che arrivano fino al commissariamento e al sequestro, riconoscendo che il caporale è solo un anello dell’intera filiera. “Una legge cruciale per sradicare una piaga inaccettabile, come la mafia”, l’ha definita al momento dell’approvazione in senato il ministro dell’agricoltura Maurizio Martina, che ha di fatto disegnato il provvedimento insieme al guardasigilli Andrea Orlando.

“Ogni iniziativa per eliminare questo fenomeno è un passo avanti importante”, gli fa eco Giuseppe De Filippo, presidente della Coldiretti di Foggia e patron di Futuragri, una delle organizzazioni di produttori più attive della zona. “Ma nel pomodoro bisogna considerare che la raccolta a mano è ormai marginale. Sono altri i settori più interessati da questa piaga”.

Un giro in auto per le grandi distese della Capitanata, tra i campi punteggiati di rosso, sembra confermare le parole di De Filippo e degli altri produttori: sui terreni si vedono per lo più in azione macchine raccoglitrici. Solo in alcune aree scoscese o troppo piccole, oppure afferenti ad alcune cooperative che puntano sulla qualità del frutto e prediligono la raccolta a mano, ancora si usa questo metodo. “Il pomodoro è un bene industriale, che viene trasformato in fabbriche gigantesche. Non ha senso raccoglierlo a mano, spendendo più soldi, a meno che non si voglia fare un prodotto di nicchia”, conclude De Filippo.

Il gran ghetto

Eppure in Puglia i braccianti stagionali continuano ad arrivare, quest’anno come gli anni passati. Contano di essere tra i prescelti per quel 10 per cento che ancora richiede la raccolta a mano, o consultano il meteo con la speranza che la pioggia cada a scrosci infangando i terreni e rendendo impossibile l’accesso alle macchine. In quel caso, per un giorno o due la richiesta di manodopera si moltiplicherà: il pomodoro maturo non può essere lasciato sui campi a marcire. L’obiettivo è per tutti lo stesso: riempire il maggior numero di cassoni possibile, con o senza contratto. Preferibilmente a cottimo – per numero di cassoni riempiti – e non a giornata.

Ci sono sempre le stesse baracche in legno, plastica e lamiera, con l’immancabile indotto generato dalla presenza di una comunità di tali dimensioni

Non esiste una stima precisa degli immigrati presenti nell’area. La Flai/Cgil parla di circa 22mila registrati nella provincia di Foggia, a cui bisogna aggiungere quelli che lavorano completamente al nero e non compaiono in nessuna lista. Africani, bulgari, romeni. Molti di loro vivono in baracche fatiscenti, casolari occupati o messi a disposizione dal padrone, baraccopoli o insediamenti abusivi in condizioni igienico-sanitarie ben oltre i limiti della decenza.

Il più famoso di tutti è il “gran ghetto”. È una vera e propria città parallela che ogni estate ospita, in uno spiazzo a qualche chilometro di distanza dalla stazione di Rignano Garganico, tra i duemila e i tremila braccianti, tutti africani. Anche quest’anno si è ricostituito, nonostante un incendio l’abbia distrutto nel febbraio scorso. Ci sono sempre le stesse baracche in legno, plastica e lamiera, con l’immancabile indotto generato dalla presenza di una comunità di tali dimensioni: baretti, ristorantini con tanto di sala da ballo, baracchini di pannocchie abbrustolite, barbieri, sarti, smerciatori di materassi, coperte o vestiti. Perfino il venditore locale di galline passa di tanto in tanto di qui con il suo furgone, lanciando nell’aria un messaggio registrato diretto normalmente a ben altri acquirenti: “Donne, accattatev’ u’ galluccio per un euro”.

C’è Radio Ghetto, un’emittente radiofonica semiclandestina messa in piedi da un gruppo di attivisti e di abitanti della tendopoli, in cui si mette musica e si parla delle condizioni di lavoro. E poi, ci sono le fornitrici di servizi sessuali: ragazze, per lo più nigeriane, che si offrono per dieci euro a prestazione nel retro di un locale adibito anche a ristorante. Tutto si vende e tutto ha un prezzo: il posto letto, che costa tra i 50 e i cento euro alla stagione, un piatto caldo, che viene offerto a tre euro, la riparazione del cellulare, che dipende dal guasto, il servizio di lavatrice che costa 4,50 euro.

Camion di pomodoro diretto verso le industrie di trasformazione. (Fabio Ciconte)

Una bomba sociale

Questi numeri ce li fornisce Antoine, un ivoriano di 61 anni che è una specie di memoria vivente delle varie stagioni dell’immigrazione in Italia. “Nel 1989 ero a Villa Literno a raccogliere pomodori, quando è morto quel ragazzo sudafricano, Jerry Masslo. Mi ricordo la paura, le manifestazioni e poi il ministro Claudio Martelli che è venuto di persona e ci ha dato i permessi di soggiorno”. Da Villa Literno, Antoine è passato a Castel Volturno, la “repubblica africana” nel casertano, e ha continuato a lavorare nei campi, prima di prendere la strada del nord e trovare lavoro in fabbrica. Da quindici anni vive a Treviso, come tradisce la sua forte inflessione veneta. “Oggi sono qui in vacanza, ad agosto la mia azienda chiude. Sono in visita agli amici che vivono qui. Vengo ogni anno, ma quest’anno è diverso, c’è più tensione perché c’è meno lavoro”.

Duemila persone senza servizi che ciondolano dalla mattina alla sera sotto il sole cocente in un posto privo di tutto sono una bomba sociale: il 28 luglio, una rissa per motivi futili si è conclusa con l’accoltellamento e la morte di un cittadino maliano. I litigi si sprecano ogni sera. Mentre ogni mattina, immancabile, si riapre il mercato dei braccianti. “All’alba i caporali caricano i più fortunati sui furgoni. Quest’anno c’è troppa poca richiesta e troppa abbondanza di manodopera”. Antoine traccia un quadro meno pacifico di quello presentato da Abu Sow. “I caporali se ne approfittano, fanno grandi guadagni sulla pelle di queste persone. Poi, certo ci sono casi e casi: dipende dai rapporti che hai e dalla tua capacità di negoziare”.

È sera. La musica comincia a diffondersi dai baretti-bordello lungo la tendopoli. L’alcool scorre a fiumi. Sulle griglie cuociono petti e cosce di pollo. “Questo posto è unico in Italia”, dice Antoine. “È un luogo malsano. Ma a suo modo è anche una comunità; io per questo vengo ogni anno”.

‘Il piano è già pronto, questa è l’ultima estate in cui assisteremo alla vergogna del ghetto di Rignano’, dice il governatore della Puglia

“Il ghetto di Rignano è una macchia che deve essere cancellata per sempre dall’orizzonte della nostra regione”, tuona il governatore della Puglia Michele Emiliano. “È un luogo in cui si concentrano attività illegali di ogni tipo, dallo spaccio alla prostituzione, oltre all’intermediazione illecita di lavoro”. Lo incontriamo al termine di un summit straordinario in prefettura a Foggia proprio sulla questione del caporalato e dell’emergenza abitativa dei braccianti.

Il pugno di ferro della regione

Il 27 maggio scorso, i ministeri dell’agricoltura, dell’interno e del lavoro hanno firmato un Protocollo contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura, che assegna fondi speciali a sei regioni (Puglia, Calabria, Basilicata, Campania, Sicilia e Piemonte) per combattere il fenomeno. La giunta di Emiliano ha presentato subito un piano per trasferire gli abitanti dei ghetti in altre strutture e organizzare un sistema di trasporti per i braccianti da queste strutture ai campi, in modo da fare a meno dei caporali. Ma per una serie di ostacoli burocratici i fondi necessari al piano non sono arrivati in tempo per la stagione.

Emiliano parla di “un’occasione sprecata”, però ribadisce che la strada è tracciata. Sugli insediamenti abusivi che punteggiano la Capitanata, e in particolare sul “gran ghetto”, la regione ha fatto una precisa scelta politica: il pugno di ferro. Ha tagliato tutti i servizi che l’amministrazione precedente garantiva come misure emergenziali: l’acqua, il presidio sanitario, i bagni chimici. “Fornendo quel tipo di assistenza, facevamo il gioco dei capi del ghetto. Non possiamo tollerare un’enclave illegale all’interno della regione”, continua Emiliano.

Se non attua uno sgombero ora nel pieno della stagione della raccolta, è solo per “motivi di ordine pubblico”. Ma il futuro è già scritto: a ottobre il “gran ghetto” sarà smantellato, il terreno sarà bonificato e i pochi stanziali che vivono lì tutto l’anno (circa duecento persone) saranno collocati altrove. “Il piano è già pronto, questa è l’ultima estate in cui assisteremo alla vergogna del ghetto di Rignano”, ci dice con tono fermo il governatore mentre visita una struttura vicino a San Severo che ospita chi decide di uscire dalla baraccopoli e che, nelle intenzioni della regione, farà parte del piano di ricollocamento degli abitanti della baraccopoli.

Se facciamo sistema, troviamo un modo da cui tutti traiamo vantaggio, sempre e solo nel pieno rispetto della legalità

L’azienda agricola Fortore è gestita dall’associazione Casa Sankara-Ghetto out, che ne ha ottenuto l’assegnazione a titolo gratuito per cinque anni. Un pannello con una citazione di una frase di Nelson Mandela accoglie il visitatore all’ingresso: “La libertà è una sola: le catene imposte a uno di noi pesano sulle spalle di tutti”. Nel cortile, un grande murale raffigura Thomas Sankara, il leggendario presidente del Burkina Faso alfiere dell’autodeterminazione dei popoli (e ucciso per questo da un golpe ordito dai francesi).

Tornare e riposarsi

Il luogo è gestito dall’associazione senza scopo di lucro Ghetto out, legata a una cooperativa sociale, la Africa-Di Vittorio. I riferimenti sono il vecchio sindacalismo di battaglia e i paladini della libertà africana: un misto di culture che solo in queste terre poteva germogliare.

La loro idea di fondo è che la cooperativa faccia da collettore di servizi e da intermediario per aiutare quanti escono dal circuito delle baraccopoli abusive a trovare un lavoro in zona. “Quando tutti saranno usciti dal ghetto, potrò tornare in Senegal a riposarmi”, dice il presidente della cooperativa Mbaye Ndiaye, che ha trasformato la battaglia contro i caporali in una missione di vita. “Noi siamo qui per offrire alternative legali ai lavoratori. Nessuno deve lavorare senza contratto o sotto caporale. Dobbiamo riuscire ad affermare una cultura di diritti e legalità”, gli fa eco Papa Latyr Faye, detto Hervé, presidente di Ghetto out.

In un complesso di palazzine in muratura a più piani, la struttura può ospitare fino a 60 persone. Al momento ce ne sono una decina: il progetto è ancora in una fase pilota. L’azienda ha una vigna e un piccolo orto, destinato ad allargarsi. Ma l’obiettivo è quello di facilitare la creazione di posti di lavoro in tutti i settori, non solo nell’agricoltura. “Se uno nel suo paese faceva il falegname e ha delle competenze, perché deve fare il bracciante?”, si chiede Hervé. “Dobbiamo usare al meglio le risorse e portare valore aggiunto a questo territorio”.

I membri dell’associazione sembrano risoluti. Godono dell’appoggio della regione e hanno molti contatti nell’area, che li potrebbero aiutare a svolgere quella funzione di ponte tra lavoratori e datori di lavoro che è lo scopo con cui hanno fondato la cooperativa. Lo stesso Abu Sow, il caporale che vuole uscire dall’ombra e sposare la legalità, è uno dei loro interlocutori privilegiati. “Se facciamo sistema, troviamo un modo da cui tutti traiamo vantaggio, sempre e soltanto nel pieno rispetto della legalità”, dice Ndiaye.

Abu lo guarda con il suo sorriso sornione e annuisce. Lui si è stufato di lavorare e far lavorare le sue squadre nei campi alle condizioni del passato. Ha anche fiutato che l’aria sta cambiando: i braccianti stanno sempre più con le mani in mano e lo stato sembra sempre meno disposto a tollerare sacche di illegalità come il ghetto di Rignano o le relazioni di lavoro basate sull’intermediazione informale.

Abu Sow sembra convinto. Altri forse lo seguiranno. Il progetto parte oggi, ma i risultati non potranno misurarsi prima dell’anno prossimo. L’estate del 2017 ci dirà se il sogno della Ghetto out si sarà realizzato e se avrà contribuito a un risultato che nessuno avrebbe mai immaginato: sradicare il sistema del caporalato e dei ghetti con l’aiuto degli africani e degli ex caporali.

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