04 novembre 2014 10:00

There’s a city in my mind
come along and take that ride
and it’s all right, baby it’s all right.
And it’s very far away
but it’s growing day by day
and it’s all right, baby it’s all right.
(Talking Heads)

Vivere su un’immensa bolla di gas

Dalla vetrata del quarantaduesimo piano del grattacielo di RasGas, l’acqua celeste del golfo Persico sfiora la baia su cui si affaccia Doha. Come per effetto di una detonazione, gli insediamenti dei pescatori di perle e le strade sulla riva sono diventati quartieri interi. In pochi decenni le aree abitate si sono irradiate verso l’interno divorando chilometri di deserto, con il risultato che la megalopoli continua a dilatarsi all’infinito, e ora si estende fino a dove l’occhio incontra il muro di polvere che chiude tutto l’orizzonte. Visto dall’alto, il paesaggio tremola per la calura e tutto ondeggia: le auto fanno su e giù in perenne marcia, le gru ruotano nell’aria, le folate roventi fanno oscillare le palme. Un effetto di instabilità complessiva che restituisce l’essenza stessa di una città senza fondamenta: sorta all’improvviso, galleggia letteralmente su un continente di gas.

Doha, West Bay, aprile 2012. (Dominik Butzmann, Laif/Contrasto)

Dando le spalle alla vetrata, appoggiata alla scrivania, Chatura Poojari – responsabile di business planning & controls di RasGas – appunta la parola Sardegna sul suo taccuino.

Cinquant’anni fa, il 26 settembre 1964, l’Algeria metteva in funzione ad Arzew il primo grande impianto di liquefazione di gas metano, e già il 6 ottobre la metaniera Shell Methane Princess salpava dal porto algerino con il suo carico di gnl (gas naturale liquefatto) diretta a Canvey Island, alla foce del Tamigi. Nel 1971 il primo gnl raggiungeva il terminale Eni di Panigaglia. Era cominciato quel commercio che ha fatto la fortuna del Qatar e oggi è alla vigilia di un boom che potrebbe cambiare il volto dei mercati energetici globali.

A quest’ora del pomeriggio le strade sono vuote, il sole è fiaccato e il cielo è troppo indebolito dal caldo per riuscire a essere blu o almeno azzurro. Chatura Poojari, ex giornalista del Gulf Times, deve avere poco più di quarant’anni, il figlio sorride da una foto esposta sulla scrivania.

Il Qatar ha circa 25mila miliardi di metri cubi di riserve di gas, pari a 360 anni di consumi italiani. Il triplo delle riserve degli Stati Uniti, con tutta la loro rivoluzione del gas di scisto (shale gas). Prima del Qatar ci sono solo la Russia e l’Iran. Al tasso di produzione attuale, le riserve dovrebbero durare poco meno di 150 anni. Il governo di Doha ha stabilito una sospensione di nuove perforazioni, per garantire la ricchezza anche alle generazioni future e per ridurre la dipendenza del paese dagli idrocarburi: la quota nella formazione del pil recentemente è scesa sotto il 60 per cento. Il giacimento North Field (di tipo “supergiant”), da cui proviene la quasi totalità del gas qatarino, è parte del giacimento più grande del mondo. Chi è stato sulle piattaforme offshore nel golfo Persico parla della “pressione spaventosa” con cui il gas fuoriesce dal giacimento.

Ottanta chilometri più a nord rispetto all’ufficio di Poojari – indossa un’elegante giacca di lana cotta, su camicia nera e pantaloni stretti sui sandali con tacchi – tre metaniere al giorno salpano dal porto di Ras Laffan per mettere in moto industrie e trasporti in varie parti del mondo. La rotta è principalmente quella dell’estremo oriente, con il Giappone in testa dopo l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima e la corsa a fonti energetiche alternative. Il Qatar è il primo produttore al mondo di gas naturale liquefatto, con circa 106,3 miliardi di metri cubi nel 2013 (una volta e mezzo il consumo annuale dell’Italia). Con i suoi 14 impianti di liquefazione in attività, Ras Laffan è il più grande terminale di esportazione di gnl al mondo. Anche se il settore ha ormai cinquant’anni, è negli ultimi mesi che in Italia sono iniziati ad affiorare i primi sintomi della febbre del gnl. È per questo che l’ascensore ci ha portati dentro questa stanza. Ed è per questo che Poojari ci ascolta concentrata: qualcosa ha cominciato a muoversi anche da noi, dando vita a una sorta di corsa italiana al gnl.

Il nostro bisogno di carburante

La domanda italiana di gas nel 2013 è stata di circa 70 miliardi di metri cubi, in calo ormai da diversi anni. Di questi, circa otto miliardi sono venuti dalla produzione interna, il resto (circa il 90 per cento) è stato importato. Sul totale delle importazioni, il 91 per cento è arrivato attraverso i gasdotti (circa la metà dalla Russia, poi dall’Algeria, dalla Libia e dal Nordeuropa), il resto via nave in forma liquida. I terminali per la ricezione e la rigassificazione del gnl in Italia sono tre: l’offshore Adriatic Lng, al largo di Porto Levante, in provincia di Rovigo, di proprietà di Exxon, Qatargas ed Edison, il gnl Italia di Panigaglia, nel golfo di La Spezia, di Snam, e l’Olt di Livorno, di Iren ed E.On. Olt è entrato in funzione nel dicembre 2013 ma, tranne che per i test di avvio, non ha ricevuto neanche una goccia di gas. Il terminale di Panigaglia è fermo da quasi due anni e i carichi dall’Algeria sono dirottati in Giappone, dove il mercato è ancora attivo e i prezzi sono più alti che da noi. L’unico gas liquido che arriva in Italia è dunque quello qatarino scaricato a Rovigo, il più economico sulla piazza europea.

“Nonostante questo scenario, la situazione italiana è in movimento”.

Chatura Poojari annuisce: “Di cosa si tratta?”.

A volte sembra che l’intervista si rovesci e siamo noi a raccontare a lei.

“Entro la fine dell’anno il ministero dello sviluppo economico dovrebbe mettere a punto un piano strategico per lo sfruttamento del gnl in Italia. Nell’attesa di regole gli operatori si stanno già muovendo”.

Nel 2014 Eni ha inaugurato a Piacenza il primo punto vendita stradale per il rifornimento dei Tir; sono entrati in funzione tre impianti di stoccaggio industriali di gnl; è stata presentata una richiesta di autorizzazione per la realizzazione di un miniterminale a Monfalcone, dove tra l’altro Fincantieri costruirà due navi da crociera per Msc con alimentazione dual fuel, a gasolio e gnl. La stessa Fincantieri ha da poco varato a Castellammare di Stabia il suo primo traghetto a gnl.

“In più, la Sardegna, unica regione non metanizzata d’Italia, dopo avere abbandonato il progetto Galsi di costruzione di un gasdotto dall’Algeria, sta cercando di ottenere dal governo centrale il supporto per costruire uno o più terminali di gnl per alimentare le reti già costruite ma che sono in gran parte inutilizzate”.

Poojari scrive, ascolta, fa di sì con la testa. È indiana e, come quasi tutte le persone che occupano posizioni di rilievo, anche lei è qui da pochi anni, anche lei vive notte e giorno al fresco dell’aria condizionata ed è straniera. Negli altri paesi del Golfo il rapporto numerico tra la popolazione locale e gli stranieri è sbilanciato, ma in Qatar la proporzione è unica al mondo: i qatarini sono una minoranza, circa 280mila persone sul totale di oltre due milioni di abitanti. Degli stranieri, circa un milione di persone stanno appese a un imbraco che pende da un’impalcatura o vivono rannicchiate dentro tute blu ed elmetti gialli lungo autostrade in costruzione; mentre i restanti 800mila sono professionisti statunitensi, europei o asiatici, venuti qui per fare affari o per occupare posti da dirigente di settori diversi, trainer sportivi, piloti di aereo, insegnanti di musica, architetti che realizzano sogni di vetro, ingegneri visionari, e ognuno a suo modo è un demiurgo di un mondo nuovo, un mondo che non sarà mai il suo.

Sono 29 gli stati al mondo che importano metano liquefatto e 26 di questi comprano dal Qatar. Un terzo di tutto il gnl scambiato nel mondo viene da qui

La massa di immigrati, cioè quasi la totalità delle persone che si incontrano negli spostamenti in città – per lo più nepalesi, indiani, filippini, singalesi – è qui con contratti di lavoro di due o tre anni. Anche per chi ricopre ruoli di responsabilità non esiste integrazione reale con la gente del posto. Perfino nelle ville faraoniche dei compound a dodici stelle nessuno si sente a casa, nessuno avrà mai una cittadinanza o un passaporto qatarino, nessuno partecipa alla vita politica dell’emirato. Nessuno insomma sta costruendo la sua Little Italy o la sua Chinatown. L’espressione melting pot qui non ha corso. Vedere i qatarini è addirittura raro. Alcuni siedono ai tavolini all’aperto dell’isola artificiale chiamata The Pearl, altri si riuniscono nei caffè dentro ai mall di lusso, certi gestiscono ancora negozi di diamanti e gioielli in oro nel labirinto del Souq Waqif. In cinque anni di lavoro a RasGas, anche per Poojari le occasioni per stringere rapporti fuori dall’ufficio con i qatarini sono state rarissime. Sulla parete del suo ufficio è appeso un planisfero che spiega come sta cambiando il mondo del gas.

Sono 29 gli stati al mondo che importano metano liquefatto e 26 di questi comprano dal Qatar. Un terzo di tutto il gnl scambiato nel mondo viene da qui. Una leadership che dura dal 2006 ma che, con la corsa al gnl che si è scatenata al livello mondiale – per l’impetuoso sviluppo dei paesi emergenti, per le qualità ambientali del gas, per le nuove prospettive di utilizzo nella navigazione e nel trasporto pesante su gomma, per la necessità di allentare la dipendenza dai gasdotti russi – ora è a rischio. Entro il 2018 quello del gnl si trasformerà in un mercato della domanda. Il prezzo lo faranno più i compratori che, come accade ora, i venditori: entreranno in funzione i quindici nuovi impianti di liquefazione attualmente in costruzione, con il conseguente aumento del 36 per cento della capacità attuale e una notevole diversificazione delle aree di approvvigionamento. Un volano che l’Italia dovrà decidere se e come agganciare.

La rotta del gas naturale liquefatto dal Qatar al Belgio e il percorso del rimorchiatore turco Bokn diretto in Norvegia, con rifornimento a Civitavecchia.

“Di recente, un rimorchiatore alimentato a gnl ha fatto rifornimento a Civitavecchia. È la prima volta che succede”. Poojari segue, si sistema i capelli nerissimi dietro l’orecchio.

Era il 15 maggio 2014 quando a Civitavecchia è avvenuto il primo rifornimento in Italia di una imbarcazione a gnl, organizzato da Conferenza gnl. La nave – il rimorchiatore Bokn – è stata varata dai cantieri navali Sanmar, in Turchia, su commissione della società di navigazione norvegese Buksèr og Berging che la utilizzerà al servizio del terminale gasiero di Kaarstoe, in Norvegia. Non è un mezzo qualunque. Si tratta del primo rimorchiatore al mondo alimentato a gas naturale, stoccato all’interno dell’imbarcazione in forma liquida, in serbatoi criogenici a -162 gradi centigradi.

Il primo approdo naturale per il passaggio dalla Turchia alla Norvegia è l’Italia, ma il nostro paese non dispone di porti attrezzati per rifornimenti di questo tipo. Nessuno dei nostri tre terminali di rigassificazione permette di scaricare il gas liquido su autobotte o su nave. Per risolvere l’impasse, il gas è arrivato in forma liquida su autobotte dal terminale belga di Zeebrugge. Questo gas “belga” proveniva con tutta probabilità proprio da Ras Laffan, via nave, dopo avere attraversato lo stretto di Hormuz, Bab el Mandeb, il canale di Suez, lo stretto di Gibilterra e il canale della Manica. Il tragitto del gnl prende la forma di uno scarabocchio: i norvegesi ordinano una nave che viene costruita e varata in Turchia, rifornita a metà strada in Italia, ma con gas “belga”, che viene dal Qatar.

Una città quasi solo immaginata

Un’ultima occhiata alla baia che brilla oltre la vetrata. Sulla sponda opposta biancheggia la città vecchia, con i vicoli del suq invasi da montagne di spezie color zafferano, e con lo sterminato cantiere a cielo aperto che domani sarà il nuovo centro della città. Da quel lato, il caffè nel museo d’arte islamica è il luogo migliore per contemplare la serie di grattacieli che svettano qui, gonfi di vanità, e che formano l’istrionico, avveniristico, disneyano distretto finanziario che stiamo per lasciare.

Le due zone, che non conoscono una reale interruzione, sono collegate dalla Corniche: la lunga passeggiata che segue tutta l’insenatura, con la strada ampia segnata da file di palme scolorite dal sole, e un camminamento pedonale che corre accanto all’acqua. Anche le aree di prato ben innaffiato sarebbero completamente sgombre se non fosse per gruppetti di operai in pausa stesi sotto alberi che proiettano ombre provvidenziali. Tutto quel che ci circonda è gas trasformato in edifici grandiosi, in strade, in cantieri. L’elemento gassoso ha spinto da sotto al deserto, è emerso, ha preso un volume, è diventato solido, e il risultato di questo miracolo della fisica è Doha.

Fermiamo un taxi color verde acqua. Sulle auto della città non c’è neanche un graffio, le carrozzerie sono smaltate, sembra non piova da secoli. Tiriamo giù i finestrini, l’aria bollente del pomeriggio riempie i sedili posteriori, scattiamo qualche foto. Poco prima del nostro arrivo sono stati arrestati due cittadini britannici con l’accusa di spionaggio. Si può entrare qui solo con il visto turistico, i giornalisti non sono graditi. Ogni tanto, infatti, qualcuno ci manda messaggi per sapere se si avverte il clima di pericolo, la guerra che nel frattempo è cominciata, con i raid aerei contro il gruppo Stato islamico. Pochi giorni fa Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giordania hanno accusato Doha di fare il doppio gioco: partecipa alla coalizione anti-Isis e contemporaneamente foraggerebbe i fondamentalisti islamici. Quali sono i rapporti reali tra la famiglia regnante e i miliziani dello Stato islamico?

Grande come l’Abruzzo, il Qatar è il jolly politico del Golfo. La Penisola: così si chiamano il principale quotidiano qatarino (The Peninsula) e il network (Al Jazeera) che rappresenta il primo e più importante esperimento di rete all news panaraba (e globale). Una definizione che si presta con voluta ambiguità a esprimere le ambizioni di leadership – culturale, economica, politica – del piccolo stato sull’intera penisola araba.

Molti e consistenti sono i finanziamenti che da privati qatarini arrivano ai movimenti islamici più diversi. Ma il ruolo del governo di Doha si gioca tra l’appoggio agli Stati Uniti, rapporti non sempre idilliaci con l’ingombrante vicino saudita e gli altri staterelli dell’area, e una decisa opposizione alla Siria alleata di Teheran. Con l’Iran, il Qatar condivide il giacimento di gas North Field, che in acque territoriali iraniane prende il nome di South Pars.

L’assegnazione dei Mondiali di calcio del 2022 e la preparazione delle strutture sportive hanno rivelato le condizioni di sfruttamento degli operai e le morti sul lavoro

A dividere i due paesi ci sono duecento chilometri di mare e il rapporto con Washington e con le multinazionali degli idrocarburi. Le sanzioni internazionali hanno bloccato molti progetti di sfruttamento degli idrocarburi in Iran mentre, nonostante il piano di qatarization delle attività economiche varato dal governo di Doha, i grandi gruppi occidentali continuano a svolgere un ruolo chiave in Qatar: senza l’intervento di Exxon, Shell e Total, Ras Laffan non avrebbe i primati di oggi. E anche l’Italia ci ha messo del suo: molti dei lavori del porto sono stati effettuati dalla Glf Fincosit, l’azienda responsabile tra l’altro della costruzione del Mose.

Con il pil pro capite più alto al mondo, pari a circa centomila dollari, il Qatar è il primo dei paesi arabi nell’Indice di sviluppo umano dell’Onu: al trentunesimo posto nel mondo, appena cinque posti dietro l’Italia. Di fatto, è un fazzoletto di sabbia che colleziona record, alcuni insospettabili, come quelli che vengono dai dati sull’obesità: secondo Il mondo in cifre dell’Economist (Fusi orari 2013) per il 2015 il Qatar è il paese con la più alta percentuale di adulti sovrappeso (44 per cento sopra i venti anni di età), seguito dal Kuwait (43,4 per cento), dagli Stati Uniti (31,7 per cento) e dal Bahrein (31 per cento). Ogni anno nell’ospedale Hamad di Doha si eseguono 800 interventi per la riduzione chirurgica del peso.

L’assegnazione dei Mondiali di calcio del 2022 e la preparazione delle strutture sportive hanno rivelato – grazie a inchieste come quella del Guardian – le condizioni di sfruttamento degli operai e le morti sul lavoro. In realtà, la città era tutta un cantiere già nel 2008, prima dell’assegnazione dei Mondiali e dei progetti degli stadi, percepiti dai qatarini solo come uno dei tanti obiettivi che si è posta la città. E già prima dell’assegnazione dei campionati del mondo, giravano voci sulla manodopera di operai trattati come schiavi. Nel 2012 era stata addirittura Al Jazeera a denunciare lo sfruttamento e le condizioni dei lavoratori.

Le aziende che scassano e sfruttano il territorio provengono da tutto il mondo. A parte le raffinerie di petrolio e i monumentali impianti per il gas – Ras Laffan è una enorme città di proprietà di Qatar Petroleum, con un check-in per accedere e quartieri dove vivono i lavoratori – sono numerosissimi i settori che attirano investimenti e le tante aziende straniere che approdano per concludere affari e avviare progetti grandiosi.

Ma a chi serviranno tutti questi quartieri nuovi che sfrecciano fuori del finestrino? La popolazione è quadruplicata dal 2000 a oggi, ma la crescita è dovuta quasi esclusivamente all’afflusso di lavoratori stranieri. L’endogamia è naturale in una popolazione così ridotta, così come la presenza di malattie genetiche. Se i qatarini sono così pochi, chi andrà a stabilirsi nelle infinite serie di case a schiera in costruzione? E tutti questi mall luccicanti o sul punto di essere inaugurati – a breve ne aprirà uno di nove chilometri e mezzo per un milione di metri quadri di superficie – troveranno i loro clienti? Ovvero: esiste una domanda reale per tutta questa merce, per queste villette color ocra, ristoranti indonesiani, progetti culturali, università americane e francesi, musei con mostre, stadi fantascientifici e tutte le idee che stanno diventando realtà?

Inventarsi una società da zero

“Bisogna cambiare ottica. Qui il mercato non è regolato da domanda e offerta. Qui il mercato è indotto”.

Ci addentriamo nei meccanismi del sistema economico qatarino con il direttore dell’Istituto per il commercio estero italiano a Doha, Andrea Ferrari.

“Ci hanno detto che la cosa difficile da spiegare agli imprenditori italiani che vengono qui in cerca di partnership è che i qatarini non sono interessati a progetti da 30 milioni di euro. Prendono in considerazione solo investimenti da 300 milioni in su. È così?”.

Il lungomare di West Bay, Doha, aprile 2012. (Dominik Butzmann, Laif/Contrasto)

“Le risorse finanziarie qui sono illimitate. Ogni giorno c’è un annuncio. Stanno costruendo dal nulla il più grande porto del mondo. Sono in costruzione la rete ferroviaria e la metropolitana. Triplicheranno gli alberghi. Si parla di un tunnel verso il Bahrain. C’è un megaprogetto di una intera città sommersa per i sub per attirare il turismo”.

“Per aprire un’attività qui che si deve fare?”.

Per terra, lungo il battiscopa, scatole di cartone in fila aspettano di essere aperte, segno che l’ufficio è in funzione da poco.

“Serve un socio qatarino che metta il 51 per cento”.

“I lavoratori che vengono qui entrano ed escono con facilità dal paese?”.

“Si viene se si è chiamati da un’azienda. Per uscire serve un permesso. È una questione molto delicata, perché le aziende a volte tendono a trattenere il passaporto. Per questo lo stato è attento a controllare questo tipo di abusi. Le autorità cercano di evitare che i privati si comportino così”.

Su The Peninsula appaiono quotidianamente annunci di No Objection Certificate. Scaduto il contratto di lavoro, l’azienda segnala sui quotidiani che l’ex dipendente sta per lasciare il paese, chiedendo se qualcuno ha obiezioni in merito.

“Quali sono le condizioni di lavoro?”.

“È annunciata da tempo una ‘riforma del lavoro’. Di recente è entrata in vigore una norma per cui non si può lavorare dalle 11 alle 15, a causa delle temperature troppo alte. Qualche anno fa ci fu un grosso incendio in un mall. Da allora un ente pubblico fa controlli sulla sicurezza con un’attenzione esasperata”.

“E la sanità?”.

“La sanità è tutta pagata dallo stato. Serve una tessera, costa circa 20 euro all’anno”. Qualche giorno dopo, tornando sull’argomento sanità, un ragazzo indiano – sfiorandosi la tasca in cui la tiene – ci confermerà l’accesso gratuito con la tessera sanitaria. Preciserà che quando qualcuno in cantiere si fa male arriva un elicottero in cinque minuti e porta il ferito in ospedale. Aggiungerà che lui però non si fida dei medici di qui. “Sono bravissimi, ma non hanno esperienza” e per chiarire quello che intende, con una mano segherà l’aria all’altezza del ginocchio facendoci intuire che se non stai attento rischi che ti taglino una gamba.

“Da quanto tempo è aperta questa sede?”.

“Quest’ufficio l’ho aperto io a giugno. Prima ho lavorato in Germania e poi in Messico”, dice il direttore.

“Come si sta a Doha? Com’è la vita?”.

“È come stare in Canada a dicembre, si vive al chiuso”.

“I terreni sono cari?”.

“I terreni costano come a Manhattan e la compravendita è solo tra qatarini. A ogni neonato viene assegnato automaticamente un appezzamento di terra”.

“Ma la possibilità che i Mondiali di calcio possano saltare e non disputarsi più in Qatar? È un’ipotesi reale?”.

A questo punto il direttore affonda la schiena nella poltrona, scuote la testa e sorride, la stessa reazione di tutti quelli a cui faremo questa domanda. In quel sorriso si legge tutto ciò che le parole stentano a esprimere e la stanza si riempie di tutte le frasi che nessuno pronuncia. L’interdipendenza economica tra il Qatar e il resto del mondo è diventata così stretta, il groviglio di interessi è ormai talmente fitto che a nessuno conviene fermare tutto. Nel silenzio dell’ufficio, addolcito solo dal ronzare dell’aria fresca che plana dai condizionatori, è evidente che i Mondiali si terranno qui.

“Comunque, se alla fine non dovessero svolgersi, per loro non cambierebbe molto. Se invece si giocheranno, sono pronti per garantire qualsiasi cosa. Se si giocheranno d’inverno bene, se si giocheranno d’estate anche. Sono in grado di realizzare tutto ciò che serve. Faranno in modo che giocatori e turisti stiano sempre al fresco”.

“L’immagine del Qatar è cambiata rapidamente. Fino a poco tempo fa era considerato come il regno degli sceicchi che vengono in Europa a comprare partecipazioni nei marchi di moda. La narrazione collettiva lo dipingeva come la monarchia illuminata, mentre ora sono diventati i nuovi Cattivi: i finanziatori dell’Isis e di Hamas che tengono gli schiavi a morire nei cantieri degli stadi. Ricchezza e lusso contro sfruttamento e terrorismo. Qual è il paese reale?”.

“Il paese reale è il qatarino che guida la Ferrari accanto alla betoniera”.

Con i polpastrelli sfoglia pile di ritagli di giornali accatastate sulla scrivania.

“Il Qatar in questo periodo è sotto ai riflettori e tutti ne scrivono, vedete? Ma nessun giornalista viene qui a controllare veramente quello che succede”.

Per andare via dall’ufficio dell’Ice, ospitato nell’ambasciata italiana, bisogna chiamare un autista privato. “Inutile chiamare un taxi, potrebbe arrivare tra qualche ora”. In effetti l’ambasciata è in una posizione piuttosto decentrata, anche rispetto al “quartiere diplomatico”.

Al governo del paese fin dalla sua indipendenza, la famiglia Al Thani è composta da 11-12mila persone in grado di mantenere un delicato equilibrio con le altre famiglie attraverso una diplomazia fatta di matrimoni e transazioni economiche. Un’abilità interna che in politica estera si è tradotta, almeno fino a poco tempo fa, nell’attitudine storica del Qatar di essere “amico di tutti”. Da dentro si percepiscono come una democrazia, sebbene la discendenza sia stata assicurata più di una volta da morbidi colpi di stato. Nel paese esiste effettivamente una forma di “pratica democratica”: in ogni quartiere c’è una stanza con un divano intorno (detto majlies) dove ci si riunisce con il capo quartiere seduto in centro. Una volta alla settimana tutti gli abitanti del quartiere possono comunicargli dei messaggi e in questo modo il messaggio sale fino al divano dell’emiro.

Ci aggiriamo tra sette edifici a due piani rivestiti di marmi chiari, facendo slalom tra molte impalcature e gruppetti di operai, nel frastuono dei frullini con cui vengono incise le lastre di marmo

A fine settembre le temperature sono ancora feroci. Le minime sono sopra i 30 gradi, le massime sopra i 40. Se non servissero bicchieri di mango frullato con il ghiaccio sarebbe difficile non restare disidratati. Sulla Corniche ci avviciniamo a un gruppo di ragazzi dalla pelle scura in tuta da lavoro. Facciamo domande e riprese video, e ogni tanto ci guardiamo intorno sperando di non essere arrestati per spionaggio.

Anthony, 32 anni, spalle larghe, camicia a quadretti blu, è un ingegnere. Lavora come capocantiere, viene dall’India. Gli chiediamo di spiegarci le modalità di reclutamento della manodopera.

“Le agenzie di collocamento, per esempio da noi in India, chiedono circa 10-15mila rial per questo servizio (2.500-3.700 euro). Ciò vuol dire che chi viene preso per lavorare qui in Qatar lavora per i primi due anni solo per ripagare chi gli ha trovato l’impiego”.

“È qui con la sua famiglia?”.

“Il permesso di ricongiungimento costa altri diecimila rial”.

“Come sono gli stipendi?”.

“Gli stipendi spesso dipendono dalla nazionalità. Anche se dipingono la stessa parete, i lavoratori hanno salari diversi. I singalesi di solito sono pagati meno, poi vengono i nepalesi, gli indiani, i filippini, gli arabi. Capita che lo stipendio non superi i duecento euro al mese”.

“E le condizioni di lavoro?”.

“Le cose stanno cambiando. Prima si lavorava anche 16 ore al giorno. Ora se ne lavorano 8, al massimo 12. Ciò che riguarda la sicurezza dipende dall’azienda, non dallo stato. Gli incidenti comunque ci sono. Due settimane fa è morto un operaio che lavorava con me. È morto appena uscito dal cantiere”.

Ogni tanto si sente un muezzin.

“Morto per cosa?”.

“Forse per il caldo”.

Prima di lavorare a Doha, Anthony è stato a Dubai. “Un posto dove sei molto più libero, puoi bere alcol, si può andare al mare, le ragazze prendono il sole in due pezzi. Qui a Doha è come essere lì, ma vent’anni fa”.

Suresh, singalese, più magro e intimidito rispetto ad Anthony, è qui da otto anni, trascorsi facendo avanti e indietro con il suo paese. Ora ha ventotto anni. Ascolta tutto annuendo, senza intervenire. Alla fine invece si decide e parla.

“Volete sapere qual è il vero problema qui? Il vero problema è la solitudine”.

Il futuro è un mondo di uomini soli

Ulivi dai tronchi antichi e rami nodosi, marmi incisi di Carrara: “Qui però non è come a The Pearl dove i blocchi di marmo sono tutti uguali”. Finalmente uno sceicco nel tradizionale abito bianco. Sguardo fiero e comportamento mite, eleganza secolare, una vanità mitigata dal carattere affabile, il bianco della veste risplende in un mondo reso impalpabile da polvere e sabbia che ricoprono tutto, i suoi occhi scuri si aggirano a controllare lo stato del suo ambizioso progetto ormai quasi completato: sull’unica collina di Doha, Mohamed al Emadi sta costruendo il suo sogno. Quando incontriamo lo sceicco (noto perché “viene in Italia una volta al mese”) discute animatamente con il capoprogetto, un ingegnere libanese, Alan Michel Fayad, che lo aggiorna sull’andamento dei lavori.

Ci aggiriamo con Al Emadi tra sette edifici a due piani rivestiti di marmi chiari, facendo slalom tra molte impalcature e gruppetti di operai, nel frastuono dei frullini con cui vengono incise le lastre di marmo. Ci guida dentro e fuori degli edifici – uno è la riproduzione della Galleria Vittorio Emanuele di Milano –, ci invita a toccare i rilievi delle lastre, a mettere le dita nelle scanalature, insiste che qui è tutto fatto a mano e i marmi sono blocchi interi. “Questa è arte! Arte!”, si scalda. Ci suggerisce implicitamente di fare come lui: alzare lo sguardo verso i soffitti, farsi stordire dall’imponenza, voltarsi per guardare intorno di continuo, bearsi dell’arte, bearsi del paesaggio di Doha che tutt’intorno si distende in attesa del tramonto, ai piedi del suo regno.

La costruzione del progetto Lagoon Plaza, edifici con uffici, spiaggia e alberghi di lusso. Nella foto, le torri Zig-Zag. Aprile 2012. (Dominik Butzmann, Laif/Contrasto)

“Quanti operai lavorano qui per lei?”.

“Mille”.

“Quanto è stato l’investimento?”.

“Cinquecento milioni di euro”.

Camminiamo su marmi Bianco Thassos: “Questi vengono dalla Grecia e restano freddi anche se il sole li colpisce tutto il giorno”, si vanta Al Emadi. Ci chiniamo per verificare. Un ragazzo con un tubo in mano innaffia eternamente un’aiuola gigante che verdeggia nello slargo formato dai sette edifici che si guardano tra loro. Gli spazi su due piani ospiteranno negozi di marchi esclusivi, ristoranti italiani, libanesi, francesi, giapponesi, mentre tutt’intorno, sull’esterno, sorgeranno dei caffè all’aperto che saranno immersi nell’aria condizionata. Nello slargo interno ci sarà una fontana. Fuori si sorseggerà qualcosa di analcolico contemplando la magia dei crepuscoli che incendiano minareti e grattacieli in lontananza.

Il progetto iniziale era open-budget, alla fine l’investimento arriverà intorno ai 700 milioni di euro. Ripensiamo al discorso fatto con il direttore dell’Istituto del commercio estero sugli investimenti italiani di pochi milioni di euro. Ripensiamo al viaggio del febbraio 2014 dell’allora presidente del consiglio Enrico Letta in Qatar, Emirati Arabi e Kuwait. Quando era tornato, con la promessa del Fondo Kia del Kuwait di investire 500 milioni di euro nel Fondo strategico italiano, Letta aveva dichiarato: “Sono tanti soldi per superare anche i problemi di stretta creditizia”. E aveva aggiunto: “Sono fondi che creeranno lavoro. Parlano i fatti e non i discorsi. Sento molti ragionamenti, tra politica interna e politica estera: questa è politica interna, economica, industriale”. Quella cifra, qui, sta nel portafoglio di una sola persona.

“I media dicono che il Qatar è solo gas, soldi e deserti. Ma il Qatar è più del gas”, dice lo sceicco senza smettere di camminare.

“Io amo l’architettura italiana. Se ami il tuo paese devi fare qualcosa di buono per il tuo paese”. Si ferma. Accenna ad aspetti diversi: “È la religione che ci incoraggia a essere onesti”. E poi: “Io amo gli ulivi”. Riprende a camminare, ci fa strada tra gruppetti di lavoratori che lo salutano senza troppa reverenza. “Mi piace Siena, la Sicilia, Roma”.

“Quanto guadagnano i suoi operai?”.

“Quattrocento, cinquecento euro al mese. Gli ingegneri intorno ai diecimila euro al mese”.

“Ci hanno detto che a Doha ci sono problemi per l’approvvigionamento. Merci e alimenti sono tutti importati. Addirittura ci dicono che, nel caso di un’emergenza, l’autonomia per l’acqua è di tre giorni, è vero?”.

Ride Al Emadi: “Non si può avere anche l’acqua. Nessuno può avere tutto!”.

In attesa degli acquedotti, le autobotti contendono alle betoniere il primato nel traffico cittadino. Per i prodotti agricoli si ricorre al land grabbing, prima in Africa e ora anche in America Latina. Per la manodopera si attinge al sudest asiatico, ma ci si rivolge sempre più all’Africa, anche per non creare comunità nazionali di immigrati troppo consistenti. Le rotte degli interscambi disegnano una sorta di grande Mediterraneo che si estende dal Madagascar allo Sri Lanka.

Siamo fuori, nella terrazza che gira attorno al grande spazio color giallo chiaro: “Qui si potrà stare all’aperto con l’aria condizionata”.

Tra questi marmi chiari, sembra che il Qatar stia succhiando arte, civiltà e vita dall’Italia. Di colpo pare che il gas che viaggia verso l’Italia torni indietro sotto forma di idee, conoscenze, menti creative. È un patto segreto che non ha stretto nessuno. L’Italia avrà sempre più bisogno di una linfa vitale – il gas – per non spegnersi, mentre il Qatar allatta il mondo ma in cambio vuole primizie, cultura, squadre di calcio, tornei di tennis, Storia. Il Futuro succhia al Passato i suoi segreti, per riconoscenza dona un elisir per non invecchiare.

“Vedendo il progetto del nuovo centro della città, abbiamo notato una grande attenzione a creare degli spazi dove le persone possano camminare, ritrovarsi, stare all’aperto, con vie alberate, tram, pensiline, secondo il modello di città europea. Il suo progetto, in questo, è simile”.

“Ma il quartiere di cui parlate è costruito dallo stato, è pubblico. Qui invece è tutto privato”.

Ama le piazze. Disprezza i grattacieli. Effettivamente, a Doha, a parte sulla Corniche, non si può mai camminare, almeno in questa stagione. Le distanze sono enormi, per fare il giro di un palazzo serve un’ora e la temperatura non permette di stare fuori più di cinque minuti. In più, i marciapiedi non esistono e le strade sono tutte a doppia corsia, solo attraversarle è una roulette russa. Con il tempo la necessità di una città vivibile si insinua nei piani urbani e nei desideri di chi ci abita.

Spingiamo la conversazione verso i Mondiali e le polemiche.

“Le partite durano un’ora e mezza”, ci dice. “Dopo le persone che faranno? Dovranno trovare qualcosa di bello. Io sto cercando di creare qualcosa di bello qui”.

“Sceicco, come vede il futuro di questa città?”.

“Io non sono uno sceicco. In Qatar c’è uno sceicco solo, ed è l’emiro”.

“Al Emadi, il futuro del Qatar come sarà?”.

“Il futuro sarà qualcosa al di sopra delle aspettative”.

Dritto, esposto su una specie di prua di tutto il complesso, un’area protetta da colonne basse che circonda l’insieme degli edifici, un vecchio ventilatore acceso è rivolto verso il quartiere finanziario distante decine di chilometri. La sera sta per scendere e le luci palpitano nei quartieri residenziali e salgono fino all’ultimo piano dei grattacieli che diventano arancioni. Il ventilatore soffia aria caldissima verso il golfo Persico.

Di notte la città cambia. Giovani coppie della classe media in maniche corte cercano qualche refolo di vento lungo la Corniche, costringendo allo slalom i ragazzi sui rollerblade. La passeggiata serale lungo l’acqua è un appuntamento fisso per chi lavora tutto il giorno. Ogni tanto, in mezzo al passeggio, si avverte l’arrivo di gente paonazza che fa jogging con le cuffiette e di ragazze velate di nero che corrono con le Nike rosa ai piedi. Nelle dolci notti qatarine, può capitare che i lampioni illuminino i sandali di fidanzati seduti, con le spalle ai grattacieli, e le gambe sospese sulle onde che lambiscono la riva: in cielo neanche una stella, forse per far patire meno il divieto di tenersi per mano. Barchette e barconi luminosi sono ormeggiati e ondeggiano appena, osservati di sfuggita da famiglie che gironzolano beate. I bambini volano sulle altalene, le fontane della baia producono giochi d’acqua e le iridescenze sono catturate dentro decine di smartphone.

Per la terza volta ci domandano se siamo già stati a The Pearl. Solleviamo un braccio, un taxi accosta. È giovedì sera e chiediamo di essere portati sull’isola artificiale. Nel taxi, la solita aria alpina. Durante il giorno, le auto che si vedono in città sono tutte di grossa cilindrata, molte Chevrolet e tanti suv, pieno di pickup e belle Mustang, e sfrecciano tutte di solito a cento all’ora – sarà che la benzina costa venti centesimi al litro, otto euro per un pieno – e, nonostante il cambio automatico, anche i tassisti stirano il motore costringendolo a cambiare marcia quando arriva a seimila giri. Ma di giovedì notte, le strade intorno a The Pearl si trasformano in un circuito di Formula 1. Dai garage di questo miraggio di cartone escono Lamborghini, Rolls Royce e Ferrari che si inseguono lungo l’asfalto nero che alterna rettilinei a curve ampie, e i motori ululano.

Cartellone pubblicitario per la costruzione di un nuovo complesso residenziale. Doha, 2012. (Dominik Butzmann, Laif/Contrasto)

I condomini di The Pearl, torri lucenti e nuovissime, con ingressi degni di Park avenue, formano due anelli che sembrano avere come unico scopo quello di creare un porticciolo riparato dalle correnti per tenere attraccati yacht sfarzosi e imbambolati. I globi dei lampioni in ferro battuto vagamente ottocenteschi illuminano la passeggiata che sfila accanto alle barche immobili. Il silenzio è rotto solo dal mormorio dei giovani seduti nei caffè all’aperto dove si beve sotto a ombrelloni che proteggono dalla luna, sorta da poco. A The Pearl è inevitabile fare il confronto con Dubai, la città artificiale per eccellenza. Da quando è stato annunciato l’expo del 2020 a Dubai molti lavoratori hanno lasciato Doha e si sono trasferiti lì. Da Doha c’è un volo per Dubai ogni 45 minuti, il volo dura 39 minuti e costa 52 euro.

Colpisce, di alcune ragazze che tornano a casa coperte dalla testa ai piedi, solo il color ciliegia dei rossetti stesi sulle labbra. Di altre, sarà difficile scordare i tacchi incoerenti, le dotte montature di occhiali in metallo, o il color tuorlo d’uovo delle borse di Prada.

“Quanti gradi faranno?”. Non c’è neanche un filo d’aria, le palme sono anemiche, o di ceramica.

Capita, la mattina, di trovare fuoriserie accartocciate sui guardrail, intorno a The Pearl, abbandonate al termine di una gara di velocità.

Echi dal Vecchio Mondo

Un club Mediterranée per terroristi: così ha definito il Qatar Ron Prosor, ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite, in un articolo pubblicato lo scorso agosto sul New York Times, mentre infuriava il conflitto a Gaza. Definizione di parte, certo, e che ha il difetto di semplificare le ambizioni e le tattiche non sempre lineari che il paese mette in campo per ritagliarsi un ruolo nel Golfo e sullo scenario internazionale. Sede della più grande base statunitense nel Golfo, mediatore privilegiato in diverse delicate trattative tra Washington e i gruppi del fondamentalismo islamico (dai taliban al Fronte al nusra), attraverso le sue organizzazioni caritatevoli e le donazioni dei privati Doha garantisce flussi finanziari a molte delle realtà attive nelle crisi che attraversano il mondo arabo, dalla Libia alla Siria alla Palestina.

Spesso senza avere il controllo puntuale della destinazione finale dei fondi. E, almeno fino al colpo di stato che ha riportato i militari al potere in Egitto, è stato il principale sponsor dei Fratelli musulmani, che gli altri paesi del Golfo vedono come fumo negli occhi, tanto da spingere Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti a ritirare, nel marzo scorso, gli ambasciatori da Doha. E anche con Israele il Qatar è passato alla più aperta ostilità, dopo essere stato il primo paese arabo a intrattenere rapporti bilaterali.

Per avere un’idea del ruolo del Qatar negli equilibri instabili del mondo arabo si può leggere il resoconto dell’incontro che si è svolto a Doha il 21 agosto 2014 tra l’emiro Tamim, il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen e il leader di Hamas, Khaled Meshaal, che qui a Doha alloggia all’hotel Hyatt. Oggetto dell’incontro, oltre alla crisi di Gaza, era l’accusa di Abu Mazen a Meshaal di tramare contro l’Autorità palestinese e di aver progettato un colpo di stato in Cisgiordania con finanziamenti dagli Emirati Arabi Uniti.

Dal tesissimo scambio di accuse emergono le trame e i flussi di denaro e appoggio politico che legano i paesi del Golfo con i quadranti più incandescenti del mondo arabo. Trame alimentate anche da azioni di lobby sui mezzi d’informazione statunitensi. “Gli americani ci chiamano tutti i giorni, Kerry chiama mille volte al giorno”, dice l’emiro nel dare il benvenuto ad Abu Mazen. “Gli Stati Uniti e i paesi arabi stanno scatenando una campagna contro di noi perché ospitiamo Hamas. Ma questo è un grande onore per noi”.

Il venerdì mattina i vicoli del suq sono bui, i negozi sono tutti serrati. L’unica chiesa cattolica del Qatar, Nostra Signora del Rosario, è invece in piena attività. Qui la messa, invece che la domenica, si celebra il venerdì, giorno del riposo settimanale. Diciannove celebrazioni in lingue diverse, dal tagalog al tamil all’inglese (sembra contemporaneamente il giorno del crollo della torre di Babele e Pentecoste), e tutto va avanti dalle sei di mattina alle sette di sera. All’esterno due camionette della polizia e niente croci: è vietato esporre simboli religiosi.

All’interno si celebrano tutti i sacramenti, battesimi, comunioni, matrimoni. L’edificio si trova all’estrema periferia sudoccidentale della città, all’interno del Religious complex, un compound che ospita le sedi di otto diverse confessioni cristiane. Fuori della parrocchia, il passaggio tra il verde dell’erbetta brillante e il giallo del deserto è simile solo a quello che si vede entrando a Palm Springs tra i campi da golf e la Coachella valley assetata. Il tassista che ci porta alla chiesa, filippino, tiene un rosario appeso all’autoradio. Farlo ciondolare dallo specchietto retrovisore è vietato: “Non si potrebbe neanche così, ma io sono fiero di essere cristiano”.

Non lontano da The Pearl, qualche giorno dopo, siamo sulla spiaggia di Katara, con lettini e ombrelloni, pedalò king-size a forma di fenicottero. Un grandioso anfiteatro di pietra ospita spettacoli teatrali. Il giorno dopo, sotto un cielo fiabesco con nuvole aerografate sul soffitto a volta, visitiamo il mall Villaggio. Scorre l’acqua celestina dei canali in stile veneziano. Serve un po’ di attenzione per accorgersi che in questo centro commerciale le gondole capitanate da giovani asiatici fendono l’acqua non per le spinte impresse dalle pagaie ma perché vanno a corrente elettrica.

Qualche passo distante da dove le gondole fanno manovra nel canale, in uno slargo di boutique, si apre il campo da hockey su ghiaccio dove – è ormai sabato mattina – due squadre bardate e munite di mazze stanno per sfidarsi per una partita con un po’ di pubblico. Fuori dal Villaggio, dalla torre chiamata The Torch, osserviamo uno stadio in costruzione.

Storditi da tanta finzione, elettrizzati dalla febbre di una città che non si addormenta mai – di notte i cantieri sono illuminati a giorno, a tutte le ore c’è una ruspa che gratta e non smette mai il clangore di ferri che sbattono nelle fosse –, eccitati da un mondo in cui niente si tralascia, tutto si raddoppia e la maggior parte dei desideri è a portata di mano (“se volete fare un’ora di lezione di polo o di basket basta andare all’Aspire Center dove troverete un allenatore americano molto qualificato, il tutto gratis, naturalmente”), si sente il bisogno di uscire, vedere tutto da fuori, si sente il desiderio di godere un po’ di deserto arabo. La decisione è di lasciare Doha e andare verso Mesaieed, a cercare il nuovo porto in costruzione.

Dopo chilometri di case e cantieri, a un certo punto, con grande sorpresa, Doha si esaurisce. Come per una spossatezza improvvisa, i quartieri si arrendono al deserto e l’autostrada si sfila dal caos metropolitano pronta a puntare verso il nulla. Il deserto, sempre piatto e preistorico.

Sulla sinistra, le fiamme del flaring ardono sulle raffinerie. Sulla destra i cartelli che indicano le dune di sabbia. Da una parte c’è il passato remoto del paese, dall’altra la costruzione del futuro. Se a Ras Laffan le aziende di ingegneria italiane hanno giocato un ruolo importante, nella costruzione del nuovo porto sono le aziende cinesi a farla da padrone. Un altro primato che ci sfugge dalle mani, come nel settore petrolifero. Tra gli anni sessanta e i novanta l’Italia è stata uno snodo della raffinazione: ha prodotto benzina per gli Stati Uniti e la Germania, grazie alla posizione strategica sulle rotte del petrolio. Il cane a sei zampe, Moratti, Sensi, Garrone: la ricchezza prodotta dal greggio ha plasmato il costume.

Oggi l’industria è in fase calante. L’asse si sposta inesorabilmente verso est, verso impianti più grandi e con minori vincoli ambientali e norme sul lavoro meno rigide. Parlare di petrolio in Italia è diventato difficilissimo. Ma sono in molti a pensare che l’Italia potrebbe riprendere un ruolo nel campo del gnl, diventando un centro euromediterraneo del gas e intercettando il traffico dei cargo provenienti dall’estremo oriente – Cina in primis – che in futuro saranno sempre più alimentati a gnl.

Porti, terminali, rigassificatori: la possibilità che l’Italia diventi un centro euromediterraneo del gas.

Chi ci crede davvero è Alessandro Vescovini, presidente del gruppo omonimo che produce ed esporta in mezzo mondo viti e bulloni. La sede della fabbrica è a Monfalcone, nel pieno del nordest dissanguato dalla crisi. Con il consorzio Smart Gas, che riunisce vetrerie, cartiere e altre fabbriche dell’area, ha deciso di costruire un minirigassificatore per comprare il gas senza dover passare dai fornitori tradizionali e saltare così sul treno in corsa del gnl. Lo sentiremo una volta tornati in Italia: “O facciamo il rigassificatore e risparmiamo sul gas, o delocalizziamo negli Stati Uniti dove il gas costa un terzo”. Lo scopo è importare il gas come una merce, “esattamente come importiamo rottami, bramme, legname e cellulosa”.

A inizio settembre ha organizzato un incontro pubblico durato quattro ore per illustrare il progetto. Il consorzio ha anche in costruzione un impianto di rifornimento per tir a gnl a Portogruaro e conta di essere pronto per rifornire con il suo terminale, alla fine del 2017, le due navi da crociera che Msc ha commissionato a Fincantieri. Due giganti da seimila passeggeri che saranno costruite nei cantieri navali di Monfalcone e saranno alimentate a gnl. “Con lo shale gas il mercato si è liberato dall’oligopolio preesistente, e la differenza tra il prezzo europeo agganciato al Brent e quello americano regolato dalla concorrenza dei piccoli produttori shale è imbarazzante: nonostante i costi di estrazione dello shale siano superiori del 30 per cento, i prezzi statunitensi all’utenza sono un terzo rispetto a quelli europei. Così abbiamo approfittato della liberalizzazione del mercato del gas realizzata dal governo Monti: ci hanno aperto la gabbia e siamo usciti”.

Dunque: abbiamo bisogno di nuovi rigassificatori per fare dell’Italia uno snodo importante del gas e sfruttare le possibilità del nuovo mercato del gnl? Dipende. Lo stesso Vescovini è critico nei confronti dell’operazione Olt di Livorno, che recentemente ha ottenuto dallo stato una sorta di “rimborso spese” in caso di mancato utilizzo. Un rimborso pagato con le bollette dei consumatori di gas, fino a 45 milioni di euro all’anno. “Con il rigassificatore di Livorno si è seguito un po’ lo schema Mose. Una grande opera con moltiplicazione dei costi e contributi in bolletta. Se l’investimento lo fanno i privati non c’è questo gioco”. La domanda, insomma, come sempre, è: chi paga?

Australia, Stati Uniti, Canada e Africa occidentale: da questi quattro quadranti verrà l’attacco al piccolo stato del Golfo per il predominio del mercato mondiale del gas liquefatto

In Sardegna dai primi di dicembre cominceranno a girare per le strade autobotti cariche di gnl. Faranno la spola tra il porto di Cagliari e Arborea, vicino Oristano. Verranno dal terminal di Sagunto, Valencia, due volte a settimana dopo aver caricato dal locale rigassificatore che ha l’attrezzatura per riempirle. Saliranno sui traghetti per raggiungere l’azienda lattiero-casearia 3A, quella del latte Arborea. Oggi gli impianti dell’azienda vanno a olio combustibile, molto più inquinante e meno efficiente. Tra poco entreranno in funzione i nuovi generatori a gas, con uno stoccaggio di gnl di oltre 100 metri cubi. Sarà il primo assaggio di metano nella storia della Sardegna. Pur dovendo fare tutto questo tragitto, l’azienda risparmierà. E sì che il gas ci sarebbe anche, proprio sotto casa. Lo vorrebbe estrarre la Saras, il progetto di ricerca si chiama Eleonora, ma è stato respinto dalla regione. La stessa 3A è stata in prima linea nel guidare la lotta di cittadini, comitati e associazioni contro le perforazioni.

Ogni tanto, dalla parte delle dune di sabbia e dei cammelli, si allungano schiere di quad da noleggiare, e le impronte delle loro ruote, sulle montagne di sabbia, sembrano lasciate da millepiedi telecomandati. Queste dune attraggono quasi solo turisti, i bambini locali li abbiamo visti tutti al City Centre, a spingersi e ridere sulla pista di pattinaggio su ghiaccio su cui affacciano tutti i piani del centro commerciale, non distante dal grattacielo di RasGas.

Anche per il Qatar l’ampliamento del mercato globale del gnl rappresenta una sfida. Australia, Stati Uniti, Canada e Africa occidentale: da questi quattro quadranti verrà l’attacco al piccolo stato del Golfo per il predominio del mercato mondiale del gas liquefatto. Solo in Australia sono in costruzione otto impianti di liquefazione con una capacità complessiva di 61,7 milioni di tonnellate, gli Stati Uniti con i quattro impianti di Sabine Pass (partecipato dal Qatar) hanno altri 18 milioni di tonnellate, poi ci sono la Russia con Yamal (16,5 milioni di tonnellate), la Papua Nuova Guinea (6,9 milioni di tonnellate, un impianto), l’Indonesia (2 milioni di tonnellate), la Malesia (1,2 milioni di tonnellate) e la Colombia (0,5 milioni di tonnellate). In tutto fanno più di cento milioni di tonnellate per impianti che entreranno in funzione entro il 2019. Altri 38 impianti sono già stati progettati, negli Stati Uniti (14), in Australia (6), in Canada (5), in Nigeria (4), in Malesia (2), uno ciascuno in Brunei, in Camerun, in Guinea Equatoriale, in Mozambico, in Russia, in Tanzania, a Trinidad e Tobago. La capacità degli impianti autorizzati supera addirittura quella attualmente esistente e operativa (326,75 milioni di tonnellate contro 296,04).

L’imponente massa di progetti e i timori su un rallentamento delle economie emergenti, con inevitabile calo della domanda di gas, sta facendo venire i sudori freddi a chi deve prendere le decisioni finali di investimento sui nuovi liquefattori. Certo è che la disponibilità di prodotto aumenterà e il vincolo dei gasdotti si farà meno stretto. Il mercato cambierà radicalmente. Già nella prima metà del 2014 la domanda di gas qatarino dall’estremo oriente ha cominciato a mostrare segni di cedimento.

Giappone e Corea del Sud, grandi compratori, hanno approfittato delle clausole di flessibilità dei contratti di approvvigionamento a lungo termine per dare un’occhiata a un mercato spot sempre più fornito. Ma i fornitori “tradizionali” via tubo non stanno certo a guardare: la Russia, in particolare, attraverso Gazprom ha stipulato con la cinese Cnpc un contratto di fornitura di gas per trent’anni del valore di 399 miliardi di dollari, che comprende la costruzione di due gasdotti da duemila chilometri. Mosca punta così a diventare un riferimento per il mercato asiatico, a stabilire un benchmark che, nelle sue intenzioni, metterebbe fuorigioco, o almeno in grossa difficoltà, i fornitori di gnl. Una partita che è appena all’inizio.

“Tutti qui vogliono essere i numeri uno”, ci ha detto Al Emadi, dandoci un passaggio in auto fino alla Corniche. “Ma nessuno può dire da solo se è un numero uno. Sono gli altri che devono giudicare”.

Sabato mattina, sul tardi. Una tempesta di sabbia riduce la visibilità a venti metri. Il mondo è nascosto da una muraglia di polvere sottile sollevata dal vento. La stessa difficoltà e la stessa miopia entrano in gioco quando si prova a immaginare come evolverà una società solo in apparenza priva di conflitti e con una cultura tutta da costruire. Doha vuole essere la realizzazione di un’utopia ma le sue fondamenta sono gassose come l’identità del suo popolo. La sua proiezione nel futuro si scontra con fragilità logistiche e infrastrutturali, dall’approvvigionamento di acqua e cibo agli ingorghi stradali. La dinamica demografica è resa incerta dall’autoreferenzialità di una popolazione fatta di poche famiglie. L’equilibrio di un sistema politico indefinito è affidato all’abilità degli Al Thani, alla loro capacità di gestire le straordinarie ricchezze del paese per mantenere il consenso e gli equilibri internazionali.

I Mondiali di calcio sono ancora incerti e lontani. Otto anni a Doha sono come 50 anni in Europa. Secondo qualcuno non si può pensare di ospitare un evento del genere se per strada le ragazze non potranno andare in giro con la minigonna, se nessuno potrà stappare una lattina di birra. Per ora l’unico gadget che rende concreti i Mondiali è un cappello da baseball con i colori della bandiera qatarina e sulla visiera la scritta che annuncia Qatar World Cup 2022. Ne infiliamo un paio in valigia. Quando l’aereo decolla è notte fonda, ma Doha risplende come in pieno giorno.

Francesco Longo è redattore del sito di Internazionale. Ha collaborato con il Riformista e il Corriere della Sera. È autore di Il mare di pietra. Eolie o i 7 luoghi dello spirito (Laterza 2009). Gabriele Masini è redattore di Staffetta Quotidiana, giornale specializzato sulle questioni energetiche.

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