17 agosto 2016 14:01

Nell’ultimo mese non ho avuto bisogno di mettere la sveglia: a farmi aprire gli occhi ci pensano i bombardamenti del governo. Ogni singolo giorno sono stato svegliato alle sette del mattino da un missile o da un barile bomba. Non mi accorgo dei colpi di mortaio: ci sono talmente abituato che il loro suono non disturba il mio sonno.

Mi manca il lusso di potermi svegliare con calma, cominciare la giornata guardando la foto di mia moglie e di mia figlia che ho appesa sul muro. Mi manca la mia Zara, che ha solo sei mesi, più di qualunque altra cosa. Ma per ora devo balzare giù dal letto e correre al luogo dell’ultimo attacco per dare una mano con i soccorsi.

Sono diventato un esperto nell’estrarre le persone dalle macerie, nel capire fino a che punto i feriti che urlano siano sepolti sotto le macerie e come individuarli nel caos, visto che somigliano molto a delle statue coperte di polvere.

Non dimenticherò mai gli abbracci intensi e terrorizzati che ricevo dai bambini che estraggo dalle macerie delle loro case. Né sono in grado di pulire il loro sangue dalle mie magliette.

Mia moglie, che vive in Turchia, si chiede perché ogni volta che vado da lei devo comprare dieci magliette. Le spiego che “ho perso le vecchie”, in modo da non spaventarla. Soprattutto perché, da quando ha dato alla luce Zara, è diventata molto sensibile per tutto quanto riguarda i bambini.

Torno a casa circa alle nove del mattino per pulirmi e riflettere su quanto è successo, quello che ho fatto, i segni sui corpi che ho soccorso, il terrore di quanti erano in attesa di sapere se i loro cari sarebbero stati estratti vivi, o se almeno i loro corpi sarebbero potuti essere recuperati interi. Molti corpi sono orribilmente mutilati e bruciati.

Un ragazzo viene tirato fuori dalle macerie di un edificio, dopo un bombardamento ad Aleppo, il 17 luglio 2016. (Thaer Mohammed, Afp)

Dopo uno degli ultimi bombardamenti aerei che hanno colpito la città, ho visto una madre che stringeva la gamba di una ragazzina, solo la gamba, e gridava: “L’ho trovata. È la gamba di mia figlia. Non la perderò, è la sua gamba”.

Cercando di scacciare il senso d’orrore dalla mia testa, guardo la tazza che mia moglie Zaina mi ha comprato e me l’immagino piena di caffè nero. Non ho caffè, e anche se ne avessi non c’è il gas per prepararlo, ma mi basta questo per ricordarmi che mi manca anche l’odore.

Per vincere la disperazione che si diffonde nell’appartamento, faccio una videochiamata alla mia Zara. È a soli novanta chilometri di distanza ma posso vederla solo attraverso questo piccolo schermo piatto, e sono sicuro che non riesce a distinguere tra l’immagine di me e quella della canzone “cinque scimmiette saltavano sul letto”. Per lei non sono altro che una forma indistinta che osserva sul computer di sua madre per un paio di minuti, prima di annoiarsi e guardare altrove.

Ora sta cominciando a rotolare su di sé. Non glielo avevo mai visto fare. Mi sono perso anche il suo primo pasto e, se l’assedio fosse continuato, mi sarei perso ognuna delle sue prime volte: il primo gattonamento, la prima camminata, la prima parola. Una cosa simile avrebbe ucciso persino me, che negli ultimi cinque anni sono sopravvissuto a cose di ogni tipo.

È arrivato ora il momento del mio controllo quotidiano sullo stato di salute dei miei amici

Il mese scorso sono rimasto leggermente ferito quando un missile russo è finito a circa venti metri dalla mia macchina. Non ho sentito niente, ma all’improvviso il mondo è diventato bianco per l’esplosione e la polvere, così bianco che il mio udito e la mia vista si sono annebbiati e mi ci sono voluti alcuni minuti per capire dov’ero e cosa fosse successo.

Alla fine qualcuno è arrivato e ha forzato la portiera dell’auto per tirarmi fuori: stavolta era il soccorritore ad aver bisogno di soccorso. Non sono stato in grado di salvarmi da solo, in parte perché ero sotto shock, ma anche perché soffro ancora per un vecchio infortunio alla spalla.

Sono passati cinque anni, ma sembrano pochi giorni. Nell’altra parte della città, quella occidentale dalla quale in realtà provengo, le forze di sicurezza mi avevano arrestato, picchiandomi a sangue e poi sparandomi alle gambe un paio di volte.

Ero sdraiato per terra, incapace di muovermi, quando un poliziotto di nome Alaa aveva posato il suo stivale sulla mia testa e aveva cominciato a schiacciarla a terra, insultando ogni membro della mia famiglia, accusandomi di essere un traditore perché avevo partecipato a manifestazioni pacifiche contro il regime.

Poi avevo sentito qualcuno che diceva: “Alaa, non ucciderlo. Ci stiamo divertendo a torturarlo”. Quell’uomo mi ha salvato la vita.

È arrivato ora il momento del mio controllo quotidiano sullo stato di salute dei miei amici. Nel nostro gruppo di messaggi scrivo: “Chi è ancora in gara per rimanere vivo? Chi ha sconfitto la morte un giorno di più?”.

Dopo che mi sono assicurato che non abbiamo perso nessuno durante gli attacchi del mattino, esco di casa sulla mia moto. L’ho comprata dopo l’inizio dell’assedio perché non mi potevo più permettere l’automobile. A volte offro una sorta di servizio di taxi pubblico gratuito alle persone bloccate nelle strade, visto che la mancanza di carburante ha provocato la chiusura di buona parte della nostra rete di trasporti.

Un mercato abbandonato in un’area controllata dai ribelli ad Aleppo, il 10 luglio 2016. (Karam al Masri, Afp)

Ultimamente ho lavorato per alcuni progetti finalizzati ad aiutare i civili a sopravvivere, in particolare tramite piccole attività agricole familiari. Abbiamo consultato degli amici che sono diventati “esperti d’assedi” dopo aver trascorso alcuni anni isolati a Daraya e a Ghuta est. Il loro principale consiglio era quello di coltivare il cibo da soli e così abbiamo fatto. Abbiamo comprato dei container agricoli e abbiamo piantato pomodori e melanzane, che abbiamo ottenuto dalle autorità locali. Li abbiamo quindi distribuiti in vari quartieri, invitando alcune associazioni umanitarie a fare lo stesso.

Anche dopo una sola settimana d’assedio, i mercati erano già a corto di carburante e dei beni alimentari essenziali. Le poche merci disponibili sono molto care. Il prezzo di un chilo di patate è quadruplicato, da 125 lire siriane (circa 50 centesimi di euro) a seicento.

Adesso consumo un solo pasto al giorno, solitamente fagioli bolliti o pasta, nel cuore della notte. Non riesco a dormire quando sono troppo affamato e quindi rimando il mio pasto in modo da poter riposarmi un po’ dopo mangiato.

È stato strano sentire i russi parlare di “corridoi umanitari” per mettere noi civili in salvo dall’assedio, visto che le aree che stavano bombardando a tappeto erano quelle scelte per gli eventuali passaggi di fuga.

Dopo due settimane, quando i ribelli hanno lanciato un assalto per rompere l’assedio di Aleppo, non potevamo crederci e ogni singola persona che conosco è scesa in strada per chiedere in che modo avrebbe potuto dare una mano.

Tutti in strada

Alcune persone hanno cominciato ad ammassare pneumatici da bruciare sui tetti e nelle strade, per cercare di produrre abbastanza fumo da accecare gli aerei che bombardavano. Per i bambini è diventato un gioco e hanno cominciato a correre per le strade chiedendo alle gente altri pneumatici, felici di essere nuovamente all’aperto dopo giorni di pesanti bombardamenti, durante i quali genitori e insegnanti avevano ordinato loro di rimanere nascosti.

Sono uscito a distribuire scatole di piantine da coltivare con la mia amica Samar, che lavora con l’associazione umanitaria Space of hope. Come me, anche lei ha lasciato le sue figlie in Turchia e non le vede da mesi, dal momento che ha deciso di tornare ad Aleppo per dare una mano. Tutti la conoscono e lei conosce tutti ma l’assedio è particolarmente difficile per lei. La mancanza di carburante significa che non può più guidare la sua macchina ma, al contrario degli uomini, non può guidare una moto.

Quando siamo tornati al nostro quartiere, preso dall’eccitazione, ho dato ai bambini due pneumatici, prima di ricordarmi che li avevo comprati per la mia auto, pagandoli trecento dollari.

Per un’intera settimana, nel corso della battaglia per rompere l’assedio, la gente non ha dormito e la sera le strade erano sempre piene di gente, come succede per la festa dell’aid, la fine del Ramadan. Poi, finalmente, è arrivato il momento in cui è stata dichiarata la fine dell’assedio. Mi sono sentito esaltato come quando il carceriere aveva aperto la porta della mia cella, cinque anni fa, e mi aveva detto: “Sei libero”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.

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