02 ottobre 2014 18:11

Il weekend scorso a Parigi c’è stata un’esplosione ininterrotta di sole, senz’altro uno dei motivi per cui eravamo così pochi alla proiezione di Les marcheurs, documentario sulla Marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo che nel 1983 attraversò la Francia da Marsiglia a Parigi. “Sapevo che le commemorazioni per i trent’anni della marcia non sarebbero state politiche”, ha spiegato la regista Samia Chala prima della proiezione. “Così, con la storica Naïma Yahi e il giornalista Thierry Leclère, abbiamo deciso di fare questo documentario”.

Attraverso immagini d’archivio e interviste a quelli che furono i protagonisti della marcia, il documentario ricostruisce bene il clima di violenza e impunità che regnava tra gli anni settanta e i primi anni ottanta nelle banlieues – o bidonvilles, com’erano anche chiamate – francesi: controlli au faciès (controlli d’identità sulla base dell’aspetto “etnico” delle persone), arresti ingiustificati, violenze e omicidi commessi dalle forze dell’ordine e tollerati dalla giustizia. L’idea della marcia nacque nel 1981, dopo lo sciopero della fame cominciato a Lione da tre attivisti, Christian Delorme, Jean Costil e Hamid Boukhrouma, contro le espulsioni di giovani figli di immigrati verso paesi dove non avevano mai vissuto o che avevano lasciato quand’erano piccoli. Poi, nel giugno del 1983, alle Minguettes, un quartiere alla periferia di Lione, un poliziotto sparò al ventenne Toumi Djaidja ferendolo gravemente. Fu lo stesso Toumi, insieme a un pugno di amici, a partire da Marsiglia il 15 ottobre. All’arrivo a Parigi, il 3 dicembre, erano in centomila.

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La colonna sonora di quegli anni: Carte de séjour, gruppo punk rock che cantava in arabo e francese.

Trent’anni dopo, cosa è cambiato? Troppo poco, secondo gli ospiti intervenuti dopo la proiezione insieme a Samia Chala: Hanifa Taguelmint e Djamel Atallah, che parteciparono alla marcia, e il sociologo Abdellali Hajjat. Le banlieues non solo rimangono luoghi di segregazione, ma sono molto più omogenee di un tempo (“Avevo amici di tutte le origini e di tutte le confessioni: José, Augustin, Malik, Saïd, Abdel, Yazid, Laurent, Gilles, Alain, Pascal”, [ricordano][1] i fratelli Hamana e Mohamed Khira, cresciuti alle Minguettes). Tra i giovani non esiste la memoria delle lotte dei loro genitori. Le violenze sono meno frequenti, ma non sono certo scomparse, come dimostra questa [lista][2] delle vittime di omicidi razzisti, aggiornata al 2008. E lo dimostra la storia di Hanifa Taguelmint, che nel 1981 perse il fratello Zahir, ucciso da un poliziotto a 17 anni, e che nel febbraio del 2103 ha perso allo stesso modo un nipote diciannovenne, Yassine Aibeche.

A una domanda dal pubblico su cosa bisognerebbe fare per cambiare le cose, Taguelmint si è scaldata: “La verità è che esiste un business della discriminazione: su un milione di euro stanziati per dei programmi di coesione sociale in un dato territorio, ne arrivano 100mila. Il resto va a esperti e consulenti vari”. È certo che, almeno in Francia, l’antirazzismo ha perso già negli anni ottanta la sua valenza politica per trasformarsi in una campagna moralizzatrice appoggiata dal Partito socialista e incarnata dal movimento SOS Racisme. Per questo sono importanti documentari come Les marcheurs e libri come [Histoire politique des immigrations (post)coloniales][3], curato da Abdellali Hajjat e Ahmed Boubeker.

Di omicidi razzisti – oggi, in Italia – parleremo a Ferrara dopo la proiezione del documentario di Dagmawi Yimer [Va’ pensiero][4], domenica alle 11h30, insieme ai ragazzi dell’osservatorio [Occhio ai media][5], che animeranno molti altri incontri sul tema della discriminazione (più informazioni nel [programma][6] del festival).

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Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin

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