19 maggio 2013 13:08

Jia Zhang-ke

Tian Zhu Ding (A Touch of Sin), Concorso, Cina/Giappone, 2h13

Un grande film di movimenti uguali e contrari, dove dominano i flussi dominanti e omologanti. Toccare o sfiorare il peccato, come dice il titolo internazionale del nuovo film del cinese Jia Zhang-ke, oppure lasciarsi sopraffare pur di non accettare la logica spietata dei processi capitalistici, ma anche quella dell’uomo* tout court* non appena possiede un po’ di potere? E quando scatta questo potere? Quando si ha un arma: qui metafora della tecnologia, quindi del lusso e dello status veicolo di alienazione e insensibilità verso il dolore altrui, ladra di autenticità e umanità.

Jia Zhang-ke probabilmente è il cineasta che in maniera più profonda e originale ha riflettuto sui processi di globalizzazione da quel prisma unico che è il pianeta Cina, e probabilmente “il” cineasta del decennio duemila che si è appena concluso – il primo lungo, Xiao Wu, è del 1998, il secondo, Platform, è del 2000 –, perché i suoi lungometraggi sono attraversati in maniera perfetta da tutte le problematiche del cinema contemporaneo e al contempo da tutte le problematiche del mondo contemporaneo che attanagliano anche noi, ogni giorno e sempre più fortemente, dall’inizio del nuovo secolo e del nuovo millennio.

Una costruzione incompiuta e dallo strano movimento architettonico nella notte si animava grazie ai trucchi del digitale, un ufo faceva capolino in modo apparentemente inopinato nel cielo diurno in un film girato in stile neorealista ma con i vantaggi forniti dalla camera digitale: era Still Life, capolavoro premiato con il Leone d’Oro a Venezia nel 2006, meteora nelle sale italiane, ma altrove di notevole successo (quel provincialismo di cui abbiamo parlato nel post precedente). Film di una fantascienza immessa nella prosaicità del quotidiano e più semplicemente film di fantasia.

Still Life (2006)

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Quella fantascienza, che non sappiamo più creare da noi, quella fantasia che non sappiamo più esercitare, obnubilati dall’immagine satura, luccicante e levigata. Per Jia, invece, tutto è questione di sguardo. Di sguardo personale. Il suo è autentico, fa sembrare meraviglia infantile il kitch della Cina di oggi, senza togliere nulla alla critica del sistema, anzi. Le sue angolazioni, i suoi tagli d’inquadratura, soprattutto il suo senso dello spazio, sono unici. Uno sguardo da artista-pop umanista. E versione artistica dello sguardo autentico di contadini e operai. Ne ha diversi tra i suoi parenti più stretti, tutta gente, come ha detto spesso, che lo commuove nel profondo. Quegli operai che ora vede suicidarsi in massa. Il rapportarsi compulsivo verso i “ninnoli” tecnologici veicolato dai processi consumistici capitalisti li porta talvolta a dissolvere la loro umanità, a toccare un mondo che si è fatto infernale anche se attraente all’apparenza. Un altro pianeta o l’odierno “pianeta” Cina? Concetti – movimenti – opposti e complementari.

Un oggetto è il simbolo di questo luna park elettronico dell’alienazione per troppa ossessione da status: il cellulare. Anche quello è un’arma. Forse l’arma di oggi tout-court. In The World – il film che precedeva Still Life e primo suo lungometraggio non censurato in patria – in gran parte ambientato in un parco d’attrazioni che riproduceva al suo interno un po’ tutti i monumenti del mondo globale, pareva di stare in un film di fantascienza, in un astronave, in una capsula: ipnotica ma anche claustrofobica. E quanta infelicità non appena si tornava al mondo reale.

The World (2004)

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Jia Zhang-ke avrebbe dovuto girare un film di wuxiapian – i film in costume con spadaccini volanti tipici della cinematografia di Hong Kong – prodotto da un maestro del film d’azione, Johnnie To. Per ora il progetto si è arenato. Lo ha recuperato in parte con questo film ad episodi, ispirato a storie reali, co-prodotto dall’Office Kitano di Takeshi Kitano.

Si può essere un operaio, un lavoratore migrante, un hostess per l’accoglienza di un locale di prostituzione, un ragazzo che passa da un lavoro all’altro, ed essere pieni di frustrazioni e umiliazioni accumulate. Basta poco, allora, per far esplodere una furia cieca. E stravolgere il registro di un film, già a metà tra neorealismo e minimalismo, in un film a metà tra il wuxia e l’horror: movimenti uguali e contrari. Ci vuole che i singoli incappino in un oggetto del “peccato”, cioè un’arma. Per l’operaio sarà il fucile, per il lavoratore migrante una pistola, per la donna un coltello, per il ragazzo un oggetto contundente. Oggetti che conferiscono un potere unico improvviso ma che aprono anche una strada senza ritorno. Un movimento, una curva quasi impercettibile, passata la quale nulla sarà più come prima.

24 City (2008)

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È sempre l’uccisione dell’umano che è in noi il tema caro al regista, che gioca qui con leit-motiv cari ai generi ma facendo in realtà del tarantinismo alla rovescia. Sottotraccia, è anche un film di fantascienza alla rovescia. O meglio, rovescia l’inizio di 2001 Odissea nello spazio. Il film di Kubrick partiva con la celebre sequenza delle scimmie-ominidi dove una di esse prevaricava sulle altre grazie alla scoperta del potere che gli conferiva un oggetto tecnologico primitivo – un oggetto contundente, la clava – cioè attraverso la violenza. Con una dissolvenza quell’oggetto primitivo diventava un oggetto della moderna tecnologia futuribile, liscia e priva di qualsiasi asperità.

Qui si parte dall’arma più “sofisticata” e si chiude con l’arma più “primitiva”. Inversamente, però, si va dagli ambienti del primo episodio, più “primitivi”, fino ad arrivare a quelli degli ultimi due, i più moderni (“fantascientifici”): treni e stazioni di un eleganza levigata, cellulari onnipresenti. Movimenti uguali e contrari, appunto. Li ritroviamo anche all’interno degli altri suoi film, ma qui ne sono l’ossatura. Il cineasta, del resto, in quest’opera ripercorre alla rovescia anche l’itinerario del suo stesso cinema: dai film con ambienti e riferimenti visivi quasi da arte povera degli inizi alla fantascienza patinata degli ultimi. In quella che è forse la sua opera più pessimistica – solo il ragazzo dell’ultimo episodio ripudia l’oggetto del potere arcaico-moderno ma il prezzo è il suicidio –, nel finale torna all’inizio del film, agli ambienti dei primordi.

A Touch Of Sin (2013)

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Una compagnia teatrale itinerante di opera cinese si esibisce in uno spettacolo, una spettatrice va in direzione opposta al flusso delle persone. Ultimo movimento uguale e contrario. Jia non chiude con il feto che dà sulla stanza concettual-levigata di 2001, ma chiude con un utero che contiene scenari e materiali grezzi, luce naturalistica, ambientazione (da arte) povera. E volti autentici. Stop del movimento multiplo: l’ultima inquadratura, lunga, è sul pubblico. Volti brutti in termini estetici, bellissimi in termini di autenticità. Faccioni di verità: da lì bisogna ripartire se si vuole tornare ad una società con un futuro invece che andare verso una società senza ritorno.

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