18 luglio 2014 16:53

http://www.youtube.com/watch?v=KwhIvgJYiyg

Frederick Wiseman incontra il pubblico a Cannes (Quinzaine des réalisateurs)

National Gallery di Frederick Wiseman (Quinzaine des réalisateurs), Francia/Usa, 180’ - Distribuzione italiana: I Wonder Pictures.

Il documentario è l’ennesima interrogazione di Wiseman, uno dei maestri del genere nell’ambito del cinema d’autore, sulle grandi istituzioni dell’occidente, intese in senso lato. Pochi mesi fa Wiseman aveva presentato all’ultima edizione del festival di Venezia At Berkeley, fenomenale documentario sull’Università di Berkeley in California uscito trionfalmente nelle sale francesi poco tempo fa. Berkeley, com’è noto, è l’università per eccellenza, negli Usa, delle discipline umanistico-letterarie, divenuta celebre, se non mitica, negli anni sessanta e settanta anche come “covo” dei movimenti pacifisti giovanili.

Ma già a maggio scorso presentava a Cannes, alla Quinzaine des réalisateurs, questo documentario “monstre”, sia sul piano della lunghezza che della sua densità (in termini di struttura e contenuti), e dedicato, come il titolo indica senza equivoci, a uno dei più importanti musei al mondo, appunto la londinese National Gallery, e alle sue 2400 opere d’arte risalenti a un ampio periodo storico che va dal ‘400 all’800.

I Wonder Pictures, meritevole distributore specializzato nel documentario, lo proporrà nel difficile mercato italiano. Il film, di cui Wiseman è regista, montatore e tecnico del suono, è un indagine sull’arte, sulla collocazione dell’arte nella società odierna (distratta) de(a)llo spettacolo, sulla fruizione in questo contesto della memoria artistica, che costituisce, insieme alle opere del pensiero, la memoria dell’umanità. Ma fruire tutto questo richiede pazienza e volontà di riflessione, “lentezza”, elementi antitetici a una società dove anche l’arte e la sua esposizione, dev’essere – infantilmente – un “evento”, se non una sorta di spot. Dev’essere facile. L’arte, però, non lo è mai stata.

Strutturato a puzzle, per frammenti, che ricomposti formano un ritratto unitario, il film riflette, al suo interno, la lettura frammentata e composita dell’opera d’arte, il suo raccontarci l’indecidibilità del mondo reale, la sua ambiguità intrinseca e al contempo la profondità poetica con cui tutto questo è trasmesso.

Intervista a Frederick Wiseman su At Berkeley

http://www.youtube.com/watch?v=6HP7wC8EzDg

Così facendo l’opera di Wiseman si rivela una sinfonia sul potere della trasfigurazione dell’arte mediante lo specifico del cinema, cioè il suo rapporto privilegiato con il reale (ancor oggi, nonostante le simulazioni del digitale). In qualche modo un proseguimento della visione di André Bazin, il grande teorico del cinema cofondatore della mitica rivista Cahiers du Cinéma, il quale vedeva il cinema come il proseguimento della pittura figurativa classica, nel contesto di un nuovo linguaggio moderno.

Una breve passeggiata nella cronologia dei microeventi filmati nel documentario, i quali finiscono (questi sì!) per costituire un vero grande evento significante, credo renderà meglio l’idea di quanto detto.

Un primo esempio è quando la telecamera filma le riunioni dello staff, e una delle responsabili cerca di mettersi nella pelle dei fruitori, visto che “alcune cose dobbiamo mostrarle diversamente perché il pubblico fatica a coglierle”. Cercando di avvicinarsi all’uomo della strada, si precipita totalmente nella dittatura dell’evento e della società dello spettacolo, favorendo la pigrizia del pubblico, o si cerca con umiltà di migliorare il lavoro didattico? Forse, la verità sta nel mezzo.

Sul quadro di Holbein con il teschio deformato, che fa quasi pensare a Dalì (ante-litteram), si mette in evidenza la simbologia incerta, mentre del celebre quadro di Rubens su Sansone e Dalila, se ne esplora prima un dettaglio e poi la totalità. Qui la camera di Wiseman segue il discorso critico dello studioso, inquadra prima il particolare sullo sfondo, una sorta d’ingrandimento che dà un soffio, un respiro nuovo sia a quel particolare sia al quadro, poi passa al particolare in avanti, rivelando infine il quadro nella sua interezza. Un mosaico, allora, fa la sua apparizione. Al livello “micro”, è quanto fanno tutta l’arte, il museo, il cinema e appunto lo stesso documentario di Wiseman a livello “macro”.

Trailer dell’uscita francese di Crazy Horse (2011)

http://www.youtube.com/watch?v=8xlwjejWikI

E poi si stacca sul pubblico all’interno, o su quello all’esterno, lunghe file di persone pazientemente in attesa al freddo. Anche qui: è tutto positivo o c’è del negativo? E ancora: il sapiente lavoro delle guide, le interpretazioni da loro fornite. Si torna poi alle riunioni dello staff, lunghe discussioni sul budget e sulla maniera migliore di programmarlo, in un’epoca di (relative) ristrettezze economiche per la cultura. Siamo in una società eccessivamente centrata sull’equilibrio dei conti, sulla tecnocrazia, invece che sull’umano? Sul particolare, senza esser capace di volare sul generale? Comunque, la serietà e il rispetto reciproco nello staff, malgrado si dicano le cose in faccia (o forse proprio per quello), colpiscono.

Nel frattempo, si susseguono, gli allestimenti delle mostre temporanee su Leonardo, Tiziano, Turner.

S’inseriscono due segmenti sulle questioni irrisolte poste dal restauro, come i pericoli dovuti agli eccessi di pulizia, e come questo possa cambiare il senso di un’opera d’arte, o come pure le questioni relative all’illuminazione (Rubens, ancora).

Ma in tanta scienza, compresa quella dell’interpretazione sulla significazione simbolica dell’arte, c’è posto anche per la dimensione più sensibile e misteriosa, per il dubbio. Aspetto non per forza evidente in un ambiente di formazione accademica, dove si tende un po’ a pensare che l’esplorazione scientifica dell’opera ne spieghi il mistero.

Una delle intervistate ricorda con emozione (e non è certo l’unica o l’unico a rendere visibile la propria) come “Yeats parlasse dell’imperfezione delle parole, del fatto che quando uno dice una mano non sia poi la mano”.

Un’altra guida ricorda la lezione dei pittori impressionisti, con i quali più ci “si avvicina al quadro, e più si cade nell’astrazione”. Cioè, nell’ambiguità del reale, nella sua complessità, nella sua indecidibilità. Nel mistero.

Bisogna essere pazienti, coltivare con gusto il piacere della lentezza e della contemplazione, e saperci tornare sopra, senza pensare di aver esaurito tutto in una sola visione.

E’ il caso di questo straordinario documentario che ci guadagna a esser rivisto, come è capitato a chi scrive, il quale, dopo averlo scoperto con entusiasmo a Cannes, è tornato a vederlo a Cannes a Roma, uscendone definitivamente conquistato.

Come spero conquisti i lettori, e come spero che la National Gallery vi conquisti, nel caso la visitiate quest’estate, o più avanti, magari dopo aver visto National Gallery di Frederick Wiseman.

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