27 agosto 2014 21:31

http://www.youtube.com/watch?v=us1kZ_7NGS8

Il festival di Locarno è uno strano ma felice caso nell’ambito dei festival cinematografici. Piccolo e grande assieme (un grande festival tra quelli piccoli?), geograficamente, e quindi culturalmente, è punto d’incrocio e dunque d’incontro tra Svizzera e Italia, Francia e Germania. La folla che attrae, tenuto conto che non è uno dei tre “grandi” festival di cinema d’autore (Venezia, Cannes, Berlino), impressiona. E la sera piazza Grande, dove avvengono le proiezioni all’aperto, è davvero un luogo magico.

Qui potete trovare il sito del festival con la lista completa dei premiati.**

Segnato dall’abbandono dell’ultimo minuto, a seguito delle contestazioni, di Roman Polanski, quest’anno abbiamo avuto nella serata d’apertura Luc Besson, presente fisicamente al festival per accompagnare il suo (anzi, sua!) Lucy, e Mia Farrow, Giancarlo Giannini, Rutger Hauer… Sul palco di piazza Grande sono salite anche figure mitiche del cinema d’autore del dopoguerra come Jean-Pierre Léaud – che fu rivelato ancora adolescente, come è noto, da I quattrocento colpi di Truffaut proiettato alla presenza di Léaud nella seconda serata del pre-festival– o Agnés Varda, la grande signora della Nouvelle Vague, oltre a maestri del cinema d’autore, a cominciare dal russo Aleksandr Sokurov (Madre e figlio, L’Arca russa,Faust). Senza dimenticare tecnici-artisti del cinema come il mitico Garrett Brown, l’inventore della steady-cam, di cui, tra i vari esempi, la collaborazione con Stanley Kubrick per Shining resta probabilmente la più significativa.

http://www.youtube.com/watch?v=F52IFsoYJnc

E poi ancora grandi signore del cinema odierno come Julliette Binoche, e maestri dell’oggi in concorso, radicali e potentissimi, come il portoghese Pedro Costa e il filippino Lav Diaz, il cui Mula sa kung ano ang noon (From what is before, il titolo internazionale) ha vinto il Pardo d’oro mentre Cavalo Dinheiro di Costa ha vinto il Pardo per la miglior regia. Idealmente, sono i nostri Pardi d’oro ex-aequo.

http://www.youtube.com/watch?v=ICoAARoOqwE

E se abbiamo visto diversi film di qualità, quest’anno forse maggiormente nella seconda parte del festival, non si può negare che vi sia uno scostamento importante tra le opere di Costa o Diaz e le altre selezionate. Radicalità innovative e fortemente potenti, il segno per eccellenza della ricerca artistica, è sempre più difficile vederne nei grandi festival. Sono invece fondamentali, anche perché poi irrigheranno il cinema nella sua globalità. Ode allora a Locarno che continua a provarci, contrariamente a Cannes e soprattutto a Venezia, la cui ex-sezione di esplorazione – Orizzonti – propone anche dei buoni film, ma di fattura abbastanza classica. Comunque sia, più nulla di davvero sorprendente.

Qui invece tanto cinema di ricerca nelle sezioni Signs of life e Cineasti del presente, appunto sempre più latitante nei grandi festival, più o meno da quando Olivier Père ha lasciato la direzione della Quinzaine des réalisateurs a Cannes per assumere la direzione artistica del festival di Locarno, dall’anno scorso nelle capaci mani di Carlo Chatrian, assecondato da uno staff di selezionatori di variegata nazionalità che rispecchia l’identità culturale e geografica del festival (Aurélie Godet, Mark Peranson, Lorenzo Esposito, Sergio Fant, Alessandro Marcionni, Sylke Gottlebe, Gonzalo de Pedro Amatria, Bruno Quiblier). Per fare il punto della situazione, e proprio nel momento in cui inizia il grande rito cinefilo sulla laguna veneziana, lo abbiamo voluto brevemente intervistare. Va detto che ha rivendicato le qualità proprie del festival senza alcuna arroganza o narcisismo. Ma giudicate voi.

http://www.youtube.com/watch?v=tBgDfcIh9I0

Il Festival di Locarno ha una conformazione cinematografica particolare al pari della conformazione geografica della città ospitante, crocevia tra lingua italiana, francese e tedesca, con l’aggiunta ovviamente dell’inglese in quanto lingua di comunicazione internazionale. Film tra il popolare e il cinema d’autore in piazza Grande, cinema d’autore che alterna cinema radicale a cinema più narrativo nel Concorso internazionale, forte presenza di cinema di ricerca nelle sezioni parallele, memoria del cinema sia quello per il grande pubblico, che d’autore o da aree povere del mondo. Lei è piemontese, una regione anche quella crocevia delle medesime lingue e culture. Pensa di esser stato aiutato sotto quest’aspetto nel capire la natura del festival?

Pur essendo nato a Torino, io sono valdostano, piccola regione incastonata tra Francia e Svizzera e caratterizzata da un particolarismo linguistico. Il vivere in un territorio di frontiera ha senza dubbio caratterizzato il mio sguardo e determinato alcuni miei atteggiamenti; penso però che centrale resti la conoscenza della storia del cinema in tutte le sue componenti e forme. Lo spirito di ricerca che contraddistingue il Festival va oltre il suoi direttori artistici, appartiene alla sua tradizione e si perpetua di anno in anno.

Qual è il suo bilancio di questa seconda edizione da lei diretta? In termini di presenze rispetto alle edizioni dirette da Olivier Père – nella davvero ampia piazza Grande stentavo a spostarmi al suo interno tale era la massa di persone, quantomeno quando non pioveva – e in termini di linea nella direzione artistica?

Non spetta a me tracciare un bilancio del mio lavoro. I dati parlano di un + 2 per cento rispetto allo scorso anno (che vantava già un incremento rispetto all’edizione precedente), il che se raffrontato con una meteo a dir poco difficile è senza dubbio incoraggiante. Sarebbe sbagliato però appiattirsi sulle cifre, come quando le televisioni inseguono l’auditel. Il programma di un festival non è fatto per compiacere il pubblico ma per stimolarlo; certo è che la presenza di tanti giovani e in generale di un pubblico attento e partecipe – quest’anno i dibattiti sono stati seguiti come non mai – fanno piacere.

In parte già presente l’anno scorso, dove lo spagnolo Lois Patiño aveva vinto il concorso Cineasti del presente, mi ha molto colpito l’affermarsi di una linea che potrei definire “latina”, presente in tutte le sezioni: dall’Italia alla Spagna passando per la Grecia e soprattutto Sudamerica e Centroamerica, controbilanciando la consueta forte presenza di cinema dall’estremo oriente (non solo a Locarno), e di cui il Pardo d’oro al filippino Lav Diaz è la conferma flagrante… Ha l’impressione che stia nascendo tra Sudamerica e Centroamerica se non un “cinéma nôvo”, per riprendere la celebre definizione coniata per il cinema brasiliano degli anni sessanta, un nuovo corso?

Il cinema latino – in particolare del Sudamerica – quest’anno era effettivamente molto ben rappresentato. Non parlerei però di un’onda: i film selezionati insieme ad altri presenti in altri festival sono il risultato di istanze creative e produttive autonome e indipendenti. Lo geografia del cinema oggi mi pare vada oltre le frontiere linguistiche e nazionali per delineare altri legami. Capita così che tra l’argentino Matias Pineiro e il filippino Lav Diaz ci siano più affinità che tra due registi dello stesso continente. Non saprei dire se questo è un bene, ma certamente rispecchia il mondo in cui viviamo

Princeza de Francia di Matias Pineiro (Concorso Internazionale)

http://www.youtube.com/watch?v=MyG1whZ_-rs

http://www.youtube.com/watch?v=55aR-AQiB4s

Come spiega che cineasti di primo piano come Lav Diaz e il portoghese Pedro Costa, siano oggi assenti dai concorsi dei festival maggiori e di conseguenza impossibilitati a ottenere riconoscimenti importanti, contrariamente al passato?

I festival cosiddetti maggiori sono sempre più dipendenti anche da logiche di mercato per cui rischiano di essere penalizzati registi il cui cinema non è così appetibile in termini di vendite e distribuzione. Per fortuna ci sono piattaforme come Locarno in grado di accogliere e rilanciare questi creatori coraggiosi e indipendenti.

Grande davvero è stata la quantità di ospiti di prestigio presenti al festival, da Mia Farrow a Melanie Griffith, passando per Rutger Hauer e Jean-Pierre Léaud o maestri del cinema di poesia come Aleksandr Sokurov o Víctor Erice. Ha qualche episodio particolare che desidera ricordare? Di quale di queste presenze è maggiormente fiero, e come ha vissuto la rinuncia dell’ultimo momento del regista Roman Polanski a partecipare al festival in seguito alle contestazioni? Pensa che le interferenze siano state un po’ troppo forti?

I vari ospiti presenti mi hanno lasciato forti emozioni. E spero abbiano fatto altrettanto con il pubblico di Locarno. La loro presenza è importante non solo perché aiuta la copertura mediatica, ma perché ricorda quella gloriosa storia del cinema di cui Locarno è parte e testimone. Di qui la volontà di creare attraverso le diverse presenze una sorta di mappa della settima arte che dia ragione della sua straordinaria vitalità e varietà. La mancata venuta di Roman Polanski è stata una brutta notizia: non tanto a livello personale, ma perché il pubblico non ha potuto usufruire di uno straordinario incontro con uno dei maestri del cinema.

Ha qualche progetto o ambizione particolare per il futuro del festival? L’aver avvicinato dall’anno scorso le date del festival di Locarno a quelle del festival di Venezia potrebbe lasciar pensare a una maggiore volontà di fare concorrenza…

Le date di Locarno sono determinate dall’andamento dell’anno solare. Il festival comincia il primo mercoledì di agosto, in funzione di quando questa data cade può capitare di essere spostati nella prima decina del mese o più avanti. Mi sembra di poter dire che il festival gode di buona salute; non è tanto nel confronto con Venezia che si può e si deve migliorare, ma è nella parte relativa alle infrastrutture a cui stiamo rivolgendo le nostre attenzioni.

Per concludere, ecco qui di seguito qualche nota veloce su alcuni dei film più belli, o più significativi, senza alcuna volontà di esaustività, visti nella dozzina di giorni trascorsi a Locarno.

Sei i film scelti: uno dei pochi titoli italiani presenti al festival e unico titolo nostrano selezionato per il Concorso; due film di cinema d’autore “radicale” dovuti a due veri maestri dal Concorso Internazionale “gemellati” insieme; due film dalla sezione di ricerca Cineasti del presente anch’essi “gemellati, e, infine, uno strano film d’azione dalla selezione di piazza Grande. Cominciamo da quest’ultimo.

http://www.youtube.com/watch?v=viJsYmYOZgY

Lucy di Luc Besson – Con Scarlett Johansson – Piazza Grande

Lucy è il titolo del nuovo film del francese Luc Besson. Prima ancora fu il nome di una donna ominide ma prima di tutto fu il titolo di una mitica canzone dei Beatles che ha poi fornito il nome per la donna preistorica in questione. 

http://www.youtube.com/watch?v=28XVx_sLt8o

Già. “Prima ancora” e “prima di tutto”. Siamo agli albori della storia umana e di quella del mondo e al tempo stesso al suo punto terminale: la specie umana, come è noto chiamata homo sapiens sapiens, pare giunta al culmine di un lungo processo storico di alienazione e del suo potenziale evoluzionistico, insomma della sua vita sulla terra, anche per via del riscaldamento climatico straripante. Come si dice, “gli estremi si toccano”.

Diciamo che Besson ibrida SuperQuark con il film d’azione di Hong Kong, peraltro riproposto con un ritmo certo al cardiopalma, efficace, ma senza reale originalità rispetto a quanto fatto da altri. Si deve ammettere, però, che le suggestioni scientifiche paiono intriganti. Ma per capire se siano qualcosa di più di una suggestione, ci vorrebbe come minimo una seconda visione.

Scarlett Johansson funziona, ma la preferiamo nel visionario capolavoro, Under the skin del britannico Jonathan Glazer, in concorso l’anno scorso a Venezia e attualmente nelle sale: un film celebrato da gran parte della stampa specializzata di riferimento.

http://www.youtube.com/watch?v=Eoynkt1Fx90

Mula sa kung ano ang noon (From what is before) di Lav Diaz – Filippine (Concorso Internazionale)

Cavalo Dinheiro (Horse money) di Pedro Costa (Concorso Internazionale)

“Questa storia è la storia di un cataclisma, questa storia è un ricordo del mio paese”. Con queste parole si conclude il potente affresco, ambientato nei primi anni settanta del secolo scorso, che il grande cineasta filippino (e le Filippine sono una terra, storicamente, di grande cinema d’autore) ha realizzato sul suo paese. La questione coloniale sembra torturare all’infinito intellettuali e artisti di quel paese per il semplice motivo che pare averlo divorato, pare aver divorato i rapporti umani fin nelle province rurali, pare aver divorato il suo stesso sogno di Indipendenza (Indipendencia, recitava, non a caso, il titolo di un altro film filippino, opera del giovane Raya Martin, presentato a Cannes nel 2009) come pure la sua capacità di sognare. Prima gli spagnoli, poi gli americani (prima direttamente, poi indirettamente, con Marcos), poi la religione, quella cristiana, più normale ma comunque invasiva, e poi quella islamica dei guerriglieri fondamentalisti che Diaz rappresenta come dei fanatici crudeli, se non dei psicopatici. “E delle nostre radici pagane malesiane cosa resta?”, ci si chiede – sconsolati – verso la fine.

I film più belli, innovativi e intensi del cinema odierno sono spesso film sulla memoria, film di fantasmi e ombre dolenti. Film attraversati, se non travagliati, dalla questione identitaria. Perché?

Per un *Mommy *di Xavier Dolan che fa eccezione, il resto di quanto si vede nei festival anche se bello, ispirato, non pare né altrettanto potente né altrettanto innovativo. Se ci si impegna ad analizzare questi due film, la loro dimensione poetica si fa avvolgente, pregnante (cioè intensa a tal punto da lasciarti impregnato della sua essenza). I due lungometraggi, uno davvero lunghissimo (cinque ore e mezza), l’altro nella media (1.44 mn), sembrano rincorrersi e sostenersi vicendevolmente. Uno è di un ex “colonizzato”, l’altro è di un ex colonizzatore. Uno, datato precisamente, l’altro no, ma con riferimenti storici alla cosiddetta rivoluzione dei garofani, che portò il Portogallo alla democrazia. Uno, quello di Lav Diaz, quasi tutto in esterni, l’altro quasi tutto in interni. Interni catacomba, o camera mortuaria, o convento: si parla quasi sussurrando. Nel film di Costa, che vede ancora il “negro” Ventura protagonista di un suo film, c’è una potenza poetica e un malessere, un languore pervasivo dall’inizio alla fine. Io credo che questo malessere sia anche quello nostro, e quello odierno. Credo che Costa parli del passato per parlare del presente. Finché il rapporto Nord-Sud del mondo resterà irrisolto (e con esso la questione ambientale, strettamente collegata), questo malessere, che è la nostra coscienza che ci bisbiglia sulla nostra ignavia – ogni giorno che passa sempre più inaccettabile –, resterà, persisterà, come uno “spirito”, uno zombie morale, emanazione dei marginali dimenticati da tutti, appartenenti a tutte le latitudini e a tutti i tempi.

Decisamente, solo il cinema portoghese – basti pensare a Tabù di Miguel Gomes, film inedito da noi e tuttavia centrale – pare interrogarsi in maniera forte sulla questione irrisolta della colonizzazione, e pare farlo anch’esso, come tanto cinema d’autore più avanzato, soprattutto d’estremo oriente, mediante la poesia. Interrogandosi sul mondo e sul cinema, legando l’uno e l’altro in maniera indissolubile.

Navajazo (Messico) di Ricardo Silva e * Los Hongos* di Oscar Ruiz Navia (Colombia/Francia/Argentina/Germania) – Cineasti del Presente – sono tra le belle sorprese del festival e fa davvero piacere che siano stati premiati.

http://www.youtube.com/watch?v=9NlVTu_j-1Y

http://www.youtube.com/watch?v=J9WycPDv4Cg

Sono accessibilissimi, brevi e sperimentali. Certo ritrovare la densità e la complessità, che, se si ha la pazienza di guardarli nello loro interezza, avvolgono lo spettatore per giorni dopo la visione dei film di Diaz e Costa, non è nemmeno vagamente pensabile, ma sono comunque opere originali e potenti. Il primo è un ibrido riuscito tra fiction e documentario su una situazione di non-vita di una comunità, quella della bidonville di Tijuana, città del Messico confinante con gli Usa: la leggerezza di tono, accresciuta dalla brevità della durata (appena 75mn) e dal ritmo (apparentemente) caotico, sono elementi formali che paiono riflettere una sorta di giocosa vitalità di una comunità che cerca di sopravvivere in una situazione esistenziale paradossale. E non c’è provocazione, nel filmare certi elementi “osé”, semplicemente naturalezza. Naturalezza della vita, la quale va avanti, sempre avanti. Nonostante tutto.

Il secondo invece è chiaramente una fiction, ma con molte concessioni allo stile documentario, e ci pare avere uno dei finali più belli visti a Locarno, sia sul piano simbolico che sul piano puramente visivo. Davvero un bel ritratto di adolescenti: due ragazzi che hanno un rapporto molto intenso con la loro arte murale imbrattano di qua e di là, ma i loro disegni murali, piccoli affreschi di arte popolare contemporanea, trasmettono intensità e bellezza estetica. Un kitch grezzo e non psichedelico-levigato come quello che imperversa nelle nostre città – per esempio sui marciapiedi. Soprattutto sembrano avere qualcosa da dire, un’urgenza. Il film rispecchia questo desiderio di vitalità multicolore che si nutre proficuamente di sensazioni caotiche: un desiderio confuso di fuga, speranza, rabbia e voglia di reagire sembra abitare i giovani protagonisti desiderosi di sfuggire, forse utopicamente, forse no, da una situazione di vita che sul piano concreto sembra offrire invece ben poca speranza.

http://www.youtube.com/watch?v=V-dr6tlFuPE

L’ottimo Perfidia di Bonifacio Angius (Italia) – Concorso Internazionale – è il pendant rovesciato degli ultimi due film. È sull’Italia di oggi, senza speranza, ma anche pigra, amorfa, priva di slanci vitali, poco capace di rimasticare o di fondere, in maniera originale, influenze esterne, di rendere produttivo il proprio dolore. Eppure l’Italia è stata un paese maestro in tal senso, dall’arte, quella “alta” e quella popolare, alla cucina. È una palude, nulla si muove. Con un grande lavoro nelle “linee” – quelle di automobili, finestre, mura e porte d’appartamento –, e nel taglio delle inquadrature, il film è anche molto ben calibrato: un poco di più e i singoli personaggi sarebbero caricature prive d’intensità, come tanto cinema italiano recente, e il film sarebbe allora insopportabile. È vero: in Italia ci sono esseri umani che paiono un po’ delle macchiette, siamo il paese della commedia dell’arte dopotutto. Ma ci dev’essere un limite da non superare nella rappresentazione che l’esordiente Bonifacio Angius ci sembra possedere con invidiabile, talentuosa sicurezza. C’è invece la trasmissione allo spettatore di una cappa, quella in cui sono impaludati i personaggi, ed è davvero pesante, tragica. C’è umanità vera, pregnante, e il ragazzo protagonista, ma forse ancor più il padre, fanno tenerezza, creano empatia. Davvero notevoli, del resto, ci sono parsi i due interpreti: molto naturali, molto poca recitazione da sceneggiato tv. Vi sono personaggi mostruosi, e non sono, come si potrebbe credere, i più decerebrati, come i due gonzi del bar, ma il barista: non una persona limitata come gli altri, ma totalmente fredda, indifferente, cinica. In fondo, però, in quel baretto dove quasi tutti si riuniscono c’è molta Italia, anzi, Italietta. Il limite del film è quindi forse anche la sua qualità: riflette fin troppo nella forma quello che denuncia, certo, ma la radiografia è a tal punto precisa da illuminarci, quindi utile. I personaggi, in parte sconfitti e in parte auto-sconfitti(si), restano dentro perché veritieri.

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