14 marzo 2015 11:52

Nei giorni scorsi Giulio Mozzi, editor e scrittore (è da poco in libreria, per Laurana, il suo nuovo Favole del morire) ha pubblicato sul suo sito un post intitolato “Dieci buone ragioni per non leggere narrativa contemporanea”, seguito dopo poco da un simmetrico “Dieci buone ragioni per leggere narrativa contemporanea”.

Nel primo elenco trovano posto motivazioni abbastanza inoppugnabili, come: “Basta farsi un giro al mercatino dell’usato per capire che ciò che oggi ci coinvolge, ci appassiona, ci piace o ci fa andare in bestia – tra pochi anni ci risulterà addirittura estraneo. ‘Davvero’, ci domanderemo, ‘ci scaldavamo per ‘sta roba qua?’”, oppure: “È una questione di investimento razionale del tempo. Se ho a disposizione un’ora di lettura, mi conviene dedicarla a un’opera che quasi certamente è bella (poiché questa è l’opinione condivisa dai più, e sedimentata nel tempo) o a un’opera che quasi certamente è destinata a finire nell’oblio?” (“So many books, so little time”, già si lamentava Frank Zappa).

Nel secondo elenco l’ironia è molto più destruens che nel primo, e il senso ultimo pare quello di confermare la scarsa pregnanza delle ragioni elencate: “Vedi mai che, tra tanti libri caduchi, mi càpiti di leggerne qualcuno, o almeno uno, di quelli imperituri. Sai che bello?”, “Tanto si sa che i cosiddetti classici sono tutti maschi bianchi eterosessuali nobili borghesi benestanti (e spesso preti)”.

Di certo affidarsi al canone garantisce buoni risultati, e non basta una vita lunga e sana a consumare la crema letteraria della storia occidentale, orientale e magari anche africana, perché no. Consigliare i Grandi Classici sarà sempre una soluzione elegante – nel senso che alla parola danno i matematici (sintetica, efficace) – al problema di “cosa leggere?”.

Per chi tuttavia, mosso da un appiccicoso attaccamento alla propria contingenza, animato da ragioni più o meno nobili, è comunque interessato a leggere letteratura contemporanea, ci sono eventi come Libri come, festa del libro e della lettura: manifestazione libresca organizzata da Radio3 (nelle figure di Marino Sinibaldi, Michele de Mieri e Rosa Polacco), ormai alla sua sesta edizione, da oggi fino a domenica all’Auditorium della musica di Roma.

Il tema di quest’anno, tema come si dice caldo e attualissimo, sarà la scuola. Autori che sui depliant vengono chiamati big come James Ellroy, Emmanuel Carrère, Daniel Pennac, Luis Sepúlveda, Zadie Smith, Umberto Eco, Andrea Camilleri faranno il dovuto pienone.

Gli altri, tutti gli altri, saranno comunque troppi per un solo fine settimana.

Ecco allora i nostri suggerimenti intorno ad alcune (poche) opere presentate all’interno della sezione “Il garage” (ovvero quella dedicata ad autori meno conosciuti), e ai rispettivi editori.

Vittorio Giacopini, La mappa (Il Saggiatore)

Il buon lavoro eseguito negli ultimi anni da Giuseppe Genna e più recentemente da Andrea Gentile (rispettivamente editor e direttore editoriale, entrambi scrittori, entrambi mossi di un’idea alta e per nulla scontata di letteratura) ha fatto della casa editrice milanese storicamente legata alla saggistica un punto di riferimento per la narrativa di qualità, e non ultimo per la narrativa italiana.

Troviamo autori bravissimi e difficilmente catalogabili come Filippo Tuena, Davide Orecchio, lo stesso Giacopini, o Paolo Sortino (che passa da Einaudi al Saggiatore con il suo atteso secondo romanzo, Liberal, in uscita a inizio maggio), accanto a libri più obliquamente e rischiosamente pop, come il romanzo del regista horror Lucio Fulci, o quello della band culto demenziale I Camillas.

Che il Saggiatore sia oggi un punto di approdo per alcuni dei prodotti migliori della narrativa italiana contemporanea lo conferma La mappa. Noto come voce radiofonica di Pagina3, Vittorio Giacopini è per prima cosa autore con alle spalle un’opera saggistica e narrativa assolutamente notevole come Il re in fuga (Mondadori) e L’arte dell’inganno (Fandango libri). Per entrambi i francesi utilizzerebbero l’etichetta “biofinzione” (qualcosa di più complesso e interessante e specificamente letterario di una semplice “biografia romanzata”). E biofinzione, in un senso ancora più estensivo e complesso, potrebbe considerarsi anche La mappa.

Racconta la vita di Serge Victor, cartografo al seguito di Napoleone Bonaparte durante la campagna d’Italia, poi finito in disgrazia e tuttavia ancora testimone, nelle sue peregrinazioni in giro per l’Europa, della parabola rivoluzionaria e delle successive guerre dell’impero fino alla disfatta russa. Serge Victor non è un personaggio realmente esistito, il suo nome è l’inversione di quello di Victor Serge, anarchico russo, scrittore e oppositore del regime stalinista (al pensiero anarchico Giacopini ha dedicato in anni passati diversi scritti).

La parabola di Serge ricalca in parte quella di Louis Albert Bacler d’Albe, il vero ingegnere-cartografo napoleonico e autore della Carte générale du théâtre de la guerre en Italie et dans les Alpes che nel libro di Giacopini è attribuita a Victor. Il rapporto tra Bacler d’Albe e Victor non è tuttavia di semplice sostituzione nominale, entrambi infatti sono presenti nell’opera.

Giacopini inserisce il suo personaggio nei vuoti di una fattualità storica inverificabile, immaginando una trama nascosta, una microstoria possibile nei punti ciechi degli eventi. Come già in altri suoi libri (Il ladro di suoni, L’arte dell’inganno) i personaggi si sottraggono a una chiara identificazione anagrafica per calarsi in un universo di avatar, falsificazioni, inganni. A un Serge in esilio (che cambierà poi nome in Lazzaro Salvi) è ad esempio attribuita una strana opera a metà strada tra mistica e cartografia, realmente esistente e firmata da François W. Trafford, intitolata Amphiorama. La visione del mondo dalle montagne di La Spezia.

Tutto il romanzo si muove al confine tra realtà e finzione, tra sofisticazione e fedeltà ai fatti, dove gli elementi finzionali s’intromettono nella documentatissima evoluzione dei dati storici non per capriccio ma come ipotesi e in qualche modo “valutazioni” letterarie e immaginarie intorno al periodo e agli avvenimenti rappresentati. Lo stesso meccanismo funziona nell’interpolazione di documenti, versi, memorie, lettere: veri e verosimili. Romanzo storico, quindi, ma di un genere molto particolare.

Tra i moltissimi altri personaggi realmente esistiti (militari e funzionari napoleonici, ma anche celebrità artistiche come Goethe, Da Ponte) ne figurano di inventati (ad esempio Zoraide, la donna al centro della sotto-trama sentimentale del romanzo) e altri trasfigurati, come i fratelli Korbes, dove si riconosce un ritratto immaginario dei fratelli Grimm (“Il signor Korbes” è il titolo di uno dei loro racconti). Questi ultimi sembrano incaricati, nell’economia del romanzo, di rappresentare il lato oscuro e sregolato di una fantasia in dialogo sempre più serrato, mano a mano che il progetto rivoluzionario si modifica (cambia, tracolla), con il raziocinio geometrizzante del cartografo.

Quella di Serge – che finirà giardiniere e infine pittore di porcellane a Sèvres – è la storia di un sogno di ordine e giustizia razionale che cede il passo, o tenta di resistere, al disordine della politica reale e del potere. La sua ossessione cartografica e riproduttiva nasce come utopia rivoluzionaria (“Liberté, egalité, géométricité”) e si conclude nel disincanto totale, in una sorta di muto e dolente nichilismo.

Di fronte alla restaurazione e alla fine di ogni illusione, l’utopia della Storia come ordine e linearità si ripiega e sembra sprofondare in una storia naturale, indeterminata: “La freccia si era fatta circolo, imperfetto, e nessun metronomo, nessun cronografo sembrava in grado di scandire il tempo”.

Come nel libro precedente (Nello specchio di Cagliostro, molto vicino per temi e ambientazioni) anche qui il lavoro di Giacopini sulla lingua è raffinato. Una patina anticheggiante riveste ogni pagina di un’ambigua profondità temporale, un trompe l’oeil linguistico, un falso ottocentesco (ma ibrido, pieno di elementi distanzianti). Sono scene e scene, affreschi storici dettagliati, allucinazioni panoramiche. Ecco ad esempio qualche riga di una viaggio sui canali in una Milano sotterranea e notturna, “sottomondo” inimmaginabile che sfugge ancora una volta all’ordine mentale del cartografo:

Navigare per acque cittadine, liquide carreggiate intersecanti: c’erano snodi e scambi, deviazioni. Tratti di canale all’aperto e, all’improvviso, chiuse volte di tunnel, claustrali, e arcani meccanismi, collegamenti. Scaricatoi e chiuse, scolmatori. Tubi e sifoni, leve, rubinetti. Tutta un’idraulica, tutta una meccanica. Cullato dal moto adagio andante dello scafo, ora Serge sentiva riaffiorare nella memoria la prosa scabra, l’aspro tardo latino di Bonvesin, apologeta sommo di una città che insisteva a rimanergli estranea, a tratti ostile. Oltre gli argini bassi dei navigli, su strade che poco prima dell’alba dovevano aver preso a popolarsi, potevano esser già cominciati i primi scambi e traffici di mercato. Affluunt ad urbem, veluti ad omnium temporalium bonorum sentinam, pani et vinum et boni sapori cuiuslibet generis carnes quadrupedum… (…)

La geografia diurna compresa dalle mappe e dalle carte si ribaltava nella stravolta sintesi di un putrido fluire limaccioso. Le acque di tutti i fiumi laghi torrenti rogge confuse nella broda del naviglio: il Seveso, l’Olona, la Vettabia e il Lambro, l’Adda, il Molgora, la Muzza, il Ticinello (e i laghi di Galliate, di Bobbiate, le pozze di Biandronno, i due laghi di Annone, Santa Brigida). Solo nomi e disegni e sgorbi sugli atlanti; semplici schemi o idee, punti d’origine. (…)

Risalita la Vepra s’erano immessi nel Grande Seveso fino alla roggia della Vecchiabbia per infilarsi, oltre la Pusterla dei Fabbri, nel Redefosso. A questo punto la Martesana non era più una meta remota. Lo stesso Serge, alzando gli occhi verso il bordo sfrangiato degli argini, poteva scorgere un mutato paesaggio, meno oppressivo e tetro, meno incombente. Dove sino a pocanzi s’ergevano le mura di palazzi, case, chiese, ora intravedevi spoglie sagome di tiglio o di gelso, alti tronchi di pioppo, ricurvi salici. Milano sfilava via e si perdeva alle loro spalle.

A voler indicare un punto debole del libro, questo potrebbe essere proprio la sua marcata prolissità descrittiva. Se farà la gioia degli appassionati di romanzi di genere storico (battaglie e battaglioni, città assediate, una vena pittorica preponderante), rischia di allontanare chi non ama i tempi lenti delle descrizioni (pare che oggi siano molti). Per chi non si farà scoraggiare, la ricompensa sarà quella di una pienezza di lettura di tipo quasi ottocentesco: un’esperienza romanzesca immersiva e totalizzante.

Difficile trovare in Italia altri scrittori capaci di elaborazioni letterarie e immaginarie della storia di questo stesso livello.

Vittorio Giacopini e la sua Mappa saranno insieme a Filippo La Porta, sabato alle 20, nell’officina n.3.

Marilena Renda, Arrenditi Dorothy! (L’orma editore)

L’orma è una casa editrice appena nata. Ha visto la luce a Roma nel 2012, ma già si è fatta notare nel sofferente mercato della piccola a media editoria italiana. Guidata da Lorenzo Flabbi e Marco Federici Solari, “giovani” (intorno ai quaranta) studiosi di letteratura e traduttori, ha proposto fino a oggi libri tedeschi e francesi, prevalentemente narrativi, contemporanei e non, sempre selezionatissimi, con una particolare attenzione per la cura editoriale: gemme come la pubblicazione (ancora in corso) dell’opera omnia in dieci volumi, graficamente sontuosi e filologicamente esaustivi, dello scrittore romantico tedesco E.T.A. Hoffmann; e ottimi autori contemporanei d’oltralpe come Bernard Quiriny, Annie Ernaux, Gunter Walraff. E il catalogo ultimamente si è arricchito di una collana di narrativa italiana diretta dal critico Andrea Cortellessa.

Qui hanno visto la luce opere interessanti come l’antologia La terra delle prosa, narratori italiani degli anni zero curata dallo stesso Cortellessa, L’opera poetica di Emilio Villa curata da Cecilia Bello Minciacchi o Condominio mare, un libro ibrido, testo e immagini fotografiche, di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci, passato in sordina perché uscito contemporaneamente al più impegnativo e pluripremiato La gemella H dello stesso Falco.

L’ultima opera pubblicata è Arrenditi Dorothy! di Marilena Renda, poetessa e critica letteraria alla sua prima prova narrativa, anche se pure in questo caso si tratta di un lavoro difficilmente ascrivibile a precise coordinate di genere, com’è d’altronde la vocazione dell’intera collana (perciò intitolata “fuoriformato”).

Arrenditi Dorothy è una raccolta di testi brevi o brevissimi, tra poesia e prosa, alternati a immagini grafiche e fotografiche (quasi sempre fotogrammi di film). Il rapporto tra parole e immagini è tendenzialmente aperto, non illustrativo, sfuggente. Dorothy è il nome della giovane protagonista de Il mago di Oz e il suo volto o la sua sagoma si affacciano in diverse occasioni nelle immagini di accompagnamento. A partire dal titolo, è spesso evocata in queste pagine una dimensione infantile: paure, immaginazioni, avventure. In alcuni di questi brevi racconti (e sono tra i più belli) la scrittura mima con una grazia davvero notevole il linguaggio dei bambini, la sua plasticità, spontaneità e immediatezza.

Le prose che sembrano più riuscite sono quelle dove prevale un andamento narrativo, anche soltanto accennato. Convincono invece meno i testi che si affidano a un linguaggio più autoriflessivo e oracolare.

I micro-racconti di Renda assumono facilmente le sembianze di parabole, fiabe, apologhi. A volte si tratta di scene sospese tra il grigiore della quotidianità e la possibilità (anzitutto una possibilità linguistica) di dare al mondo una piega meravigliosa, fantastica (in questi casi quelli di Buzzati e Ortese sono i primi nomi che vengono in mente). Si tratta di schegge di mondi possibili, miniaturizzati, universi chiusi e densi di un significato sospeso, enigmatico, autosufficiente.

Tra i temi ricorrenti ci sono i rapporti di coppia, con sfumature erotiche, situazioni di pericolo e crisi relazionali, o l’ordinaria amministrazione degli affetti. C’è la secchezza di quartieri anonimi e periferici (la Milano dove vive Renda) e una Sicilia nera, popolare, naturale (dove è invece nata e cresciuta). Colpisce, di queste miniature oniriche, l’abbondanza e la generosità di risorse di scrittura e di immaginazione concentrate in poche pagine o addirittura pochissime righe, là dove altri metterebbero a profitto centellinando, capitalizzando, diluendo.

Così Marilena Renda (e l’editore che decide di pubblicare libri simili) sembra venuta a soddisfare una doppia mancanza: quella di scrittori italiani interessati a esercitarsi nelle misure brevi (e non solo nel racconto, perché molto più varie, imprevedibili e polimorfe possono essere le forme assunte dalla prosa), e quella di scrittori per cui lavorare sul linguaggio significa lavorare sull’immaginazione: sfondare i limiti del realismo.

Ecco, scelta tra le più brevi, una piccola fiaba nera intitolata “Dieci mattine”:

C’è una bambina che non ha affatto paura delle storie. Gli altri attorno, sì, tutti, e nessuno infatti vuole sentirle. Né storie di bambini che non tornano, né di bambine che perdono le dita, né di cibi miracolosi, e neanche di animali che sanno scomparire.

Degli alberi che dormono vicino ce n’è solo uno che può spiegare queste cose misteriose, e la notte non dorme. La bambina quindi crede all’albero, perciò lo guarda sempre. Una sera le braccia dell’albero le porgono due uova che profumano di un odore mai sentito prima, perché queste uova hanno bisogno di qualcuno che le sappia conservare aspettando che si rompa la buccia e inizi l’incantesimo.

Adesso le uova sono nascoste sotto le sue coperte, in un angolo dove non le può vedere nessuno, perché la magia funziona se nessuno le vede. Soprattutto i guardiani della camera e i servitori degli altri maghi. Soprattutto loro. Sopra il letto della bambina c’è una cortina invisibile, e nessuno riuscirà a romperla, perché per romperla serve la chiave di seta che si trova sotto le radici dell’albero che spiega le cose, e lui la protegge.

Passano dieci mattine, e fra un po’ arriverà il momento che il guscio si romperà e allora la magia sarà compiuta, e non ci sarà nessun dolore mai più, questa è la promessa dell’albero che parla.

Una notte però vicino all’albero succede un terremoto e allora molti uccelli, tra cui moltissimi pappagalli, si siedono sui rami dell’albero o si nascondono sotto le sue radici, ed è così che balza fuori la chiave di seta; i nemici della bambina la vedono e la riconoscono e si precipitano ad aprire la cortina invisibile della stanza e distruggono i gusci che erano tanto fragili, per cui quando la bambina torna a prenderli sotto la coperta si trova tra le mani uccellini troppo piccoli che sembrano di gomma e hanno il becco e gli occhi che non si aprono.

Tocca il becco, tocca gli occhi: non si aprono.

Marilena Renda presenterà il suo libro insieme a Teresa Ciabatti, Andrea Cortellessa e Carola Susani, domenica alle 11, nell’officina n.2.

Marco Peano, L’invenzione della madre (Minimum fax)

Da qualche tempo, e dopo il rimpasto editoriale dell’anno scorso, la vita in Minimum fax non dev’essere facilissima. Il marchio che forse più di ogni altro è riuscito a imporre una propria identità (nel bene e nel male) al mondo della piccola e media editoria italiana oggi sembra vivere di rendita, o comunque defilato rispetto alla centralità di una volta.

La collana Nichel, che ha svolto un ruolo di primo piano nella scoperta di autori italiani di buono e a volte ottimo livello, oggi sembra rallentare la produzione e affidarsi volentieri a testi meno rischiosi o a vecchie fiamme: D’Amicis, Cognetti, o il prossimo (attesissimo) romanzo di Giorgio Vasta (ancora non programmato).

Pur se a regime ridotto, tuttavia, il lavoro di Nicola Lagioia (direttore della collana) e della casa editrice procede; e questo esordio di Marco Peano, se non fa gridare alla rivelazione, mantiene alto il livello della produzione minimumfaxiana.

Torinese, nato nel 1979, editor di narrativa italiana per Einaudi e già insegnante alla scuola Holden, da Peano ci sarebbe potuti aspettare un libro “tecnico”, uno di quei romanzi pieni di “soluzioni” interessanti ma poco motivati, poco necessari. Invece la scrittura di questo libro sembra affidarsi molto meno alla competenza editorial-narrativa, per così dire, che all’urgenza di un vissuto personale.

Sembra, perché nulla denuncia esplicitamente l’origine autobiografica della storia: la morte di una madre per cancro, il punto di vista del figlio, prima durante e dopo.

Sarà la precisione indiscutibile dei dettagli, o l’intensità emotiva dell’esperienza che traspare dalle pagine spoglie di questo resoconto, di fatto L’invenzione della madre è un libro che viene quasi naturale mettere accanto (fatte le dovute proporzioni) ad altri libri come Tutti i bambini tranne uno di Philippe Forest (dove lo scrittore racconta la morte della propria figlia) o Mortalità di Christopher Hitchens (pubblicato in Italia da Piemme, un altro piccolo editore presente a Libri come che meriterebbe la nostra attenzione), o più indietro i libri di Hervé Guibert (sia nel suo caso che in quello di Hitchens gli scrittori raccontano la malattia che li porterà alla morte).

Insomma un libro che sa di testimonianza, e le testimonianze della morte hanno un sapore comune, e una comune capacità di coinvolgere noi lettori nati e cresciuti in un mondo strutturalmente restio alla manifestazione diretta di questa esperienza. Forse perciò i libri che parlano della morte, della malattia, sembrano spesso improntati a una sobria e solida essenzialità, perché il loro pericolo principale è quello del patetico, così facilmente traducibile nei codici culturali dominanti.

Peano riesce quasi sempre a mantenersi a distanza da questo rischio, e lo fa adottando un lingua semplice e composta, e una struttura narrativa anche visivamente “minimalista”: brevi capitoli dove i paragrafi di prosa diretta si alternano come piccoli blocchi ad altri paragrafi racchiusi da parentesi. Il ritmo di questa alternanza è quello che tiene insieme i continui movimenti nello spazio e nel tempo del racconto conferendo allo scrittura un andamento associativo, e meditativo, che è la nota più saliente del libro. Un ritmo che sembra affinarsi mano a mano che la narrazione procede e il controcanto delle parentesi si fa più profondo: la riflessione e la narrazione dei fatti, le sconnessione dei momenti come a cercare un’unità impossibile, le analogie, a volte distanti, a volte più prevedibili, a cui un’esperienza sconvolgente costringe il pensiero.

Così, per esempio, in un cortocircuito cognitivo, la morte del gatto del protagonista porta al corpo scomparso della madre, alla sua ingombrante fisicità (o assenza di fisicità):

Il giorno dopo si decide a chiamare il veterinario, che lo palpa a lungo prima di esprimersi (…)

È curabile?, chiede Mattia.

No, ma è trattabile, risponde il veterinario da dietro gli occhiali. Prescrive una serie di iniezioni di cortisone, e intanto ricorre a espressioni ben note a Mattia come “migliorare” o “salvaguardare” la “qualità della vita”. Poi, già sulla soglia e con la sua valigetta in mano, conclude: Capisci, è come se avesse un grumo di metastasi lungo la colonna vertebrale.

Mattia si vedrà costretto a somministrare al gatto, inoperabile, lo sciroppo per evacuare, le punture di cortisone - la stessa tipologia di medicine che a suo tempo i medici avevano prescritto alla madre.

(Un’amica di Mattia che viveva in simbiosi col suo cane, dopo la morte dell’animale ingrassò di undici chili – l’esatto peso del cane. Per compensare la scomparsa della madre, Mattia dovrebbe ingrassare di cinquantaquattro chili.)

Al di là di questa caratteristica strutturale, stilisticamente il libro risulta a tratti fin troppo adagiato sulla materia incandescente del racconto. Si fatica a riconoscere un timbro preciso alla voce del narratore. Sono i momenti del confronto con quell’esperienza che lo scrittore riproduce nelle sue diverse fasi: dolore, speranza, impotenza, passività, persino cinismo e rabbia, quando la malattia della madre sembra trascenderla, soffocare e impedire l’esistenza di chi la circonda e ama.

È un libro soprattutto di cose e di emozioni, poco di visioni e parole. Peano si affida a un’essenzialità attonita, a volte con successo a volte meno. Un esordio interessante, un romanzo che non lascia indifferenti, che accompagna con delicatezza e alla fine convince.

Sarà presentato domenica, alle 16, con Annalena Benini e Diego De Silva, nell’officina n.1

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