22 febbraio 2015 12:02

Nel dicembre del 1964, il “quartetto classico” guidato da John Coltrane (McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al basso ed Elvin Jones alla batteria) entrava ai Van Gelder Studios di Englewood Cliffs, New Jersey, per registrare A love supreme.

Lʼalbum sarebbe stato pubblicato dalla Impulse! qualche tempo dopo, nel febbraio del 1965: cinquantʼanni fa esatti, e da allora è rimasto non solo il disco-simbolo di quello che fan e devoti chiamano semplicemente Trane, ma uno tra i titoli più venerati, amati e studiati dellʼintera storia del jazz – oltre che una delle presenze più riconoscibili nelle collezioni degli ascoltatori di ogni dove.

Dico “riconoscibile” proprio in senso letterale, del genere che quando spulci tra gli scaffali delle discografie altrui lo noti subito: nel nero-arancione delle classiche costine Impulse!, A love supreme spicca perché allʼarancione sostituisce il bianco, segno di quanto già a partire dalla confezione si tratti di un oggetto speciale. E se la memoria non mi inganna, è tuttora il titolo Impulse! più venduto di sempre: un motivo tra i tanti per cui lʼetichetta venne poi chiamata The house that Trane built.

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A love supreme è anche il disco che in una certa misura ha ucciso John Coltrane, e qui lʼespressione va intesa in senso perlopiù metaforico, diciamo pure polemico, via. Perché è vero che il sassofonista sarebbe morto di lì a un paio di anni, ma è altrettanto vero che in quei due anni Coltrane produsse dischi non meno importanti del capolavoro dalla costina eccentrica.

E però, nella memoria di buona parte di ascoltatori e appassionati, dopo A love supreme Coltrane semplicemente scompare. Lo notava già Eric Nisenson, il cui Ascension - Vita e musiche di John Coltrane è in corso di ristampa presso Odoya: descrivendo un concerto-tributo di inizi anni novanta, lo scrittore americano notava che “tutti i suoi traguardi posteriori al 1964 sono stati ignorati”. E poi prosegue: “Come se Trane, dopo le registrazioni di A love supreme, fosse morto”. Appunto.

Il concerto-tributo a cui si riferiva Nisenson era curato e prodotto da Wynton Marsalis, il campione del neotradizionalismo jazz e nemico giurato di qualsivoglia innovazione/contaminazione nel campo della musica che fu di Armstrong, Ellington & co, quindi niente di strano: fu proprio Marsalis a liquidare il Coltrane post-A love supreme con uno sprezzante “Nothin”. Non ho dubbi che sia un giudizio condiviso da molti.

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Il fatto è che, tra il 1965 e il 1967, il sassofonista del North Carolina era diventato il protettore dellʼavanguardia free, il paladino degli sperimentatori arditi, lʼeroe e la stella della New Thing. Dischi come Ascension e Meditations, poco si sposano con lʼidilliaca immagine del jazz propugnata da Marsalis e relativo pubblico di nostalgici: in sostanza, una musica suonata da eleganti figuri in completi Brooks Brothers che intrattengono un pubblico raffinato e colto, possibilmente impegnato a bere qualche buon vino francese allʼinterno di un locale arredato in radica di noce.

È insomma quellʼidea di jazz conservatrice e borghese stigmatizzata per esempio da Wu Ming 1 ai tempi di New Thing, il suo libro che ruota proprio intorno alla figura di Coltrane. E a questi salottieri mica gli vorrai mandare il Beaujolais di traverso con roba fritta nellʼacido tipo Om, no?

A love supreme però, quello sì che è un signor disco. Nel genere è il titolo più amato e citato di sempre insieme a A kind of blue di Miles Davis, nel cui quintetto oltretutto Trane suonava, quindi 2 a 1 per il sassofonista. A entrambi i dischi sono stati dedicati volumi monografici da parte dello stesso autore, Ashley Kahn (in Italia li ha pubblicati Il Saggiatore). Se proprio serve ribadirlo, si tratta di due album splendidi; ma anche di due lavori che involontariamente hanno finito per cristallizzare una certa percezione di cosa deve essere il jazz.

E va bene, vada per A kind of blue, così romantico, notturno, elegante… ho già detto lirico? (Quando si parla di Miles, lʼaggettivo “lirico” è obbligatorio). Ma A love supreme è una creatura strana. La musica che contiene è formalmente sontuosa e (altro aggettivo obbligatorio) intensa. Ma è anche una musica potente, furibonda, verrebbe da dire violenta, in alcuni episodi addirittura estrema.

Sarà pure il disco in cui il musicista americano ringrazia il Signore per, tra le tante cose, averlo liberato dallʼeroina; ma è anche quello che prelude alla passione di Trane per lʼLsd. Ascension, Meditations e Om, sono un poʼ già tutti qui.

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Pino Saulo, il responsabile della trasmissione Battiti di Radio3 Rai che al capolavoro coltraniano ha dedicato uno speciale a dicembre, mi suggerisce un altro aggettivo ancora: A love supreme è un disco “selvaggio”. Meglio: “È musica totalizzante, torrenziale, che ti prende allo stomaco”. Nondimeno, “ha un suo equilibrio magico, miracoloso”. Tirare fuori i miracoli in questa sede può assumere sfumature ambigue: è noto che Coltrane concepì A love supreme come una preghiera, e che il musicista considerasse la sua musica “lʼespressione spirituale di quello che sono: la mia fede, il mio sapere, la mia essenza”. Di sicuro, lʼelemento spirituale del disco è qualcosa su cui è impossibile sorvolare: basta dʼaltronde la poesia che Coltrane fece stampare tra le note di copertina dellʼalbum e che si conclude con un perentorio “ALL PRAISE TO GOD”.

Ma al di là del messaggio, se dentro non ci fosse la musica che effettivamente cʼè, difficilmente A love supreme sarebbe diventato quel capolavoro che a mezzo secolo di distanza resta. Per una volta, il parallelo con A kind of blue torna sensato oltre che utile: ancora Saulo ricorda come “partecipando al disco di Miles, Coltrane supera definitivamente la stagione del bop e approda al jazz modale”.

Al tempo stesso, “la sua ricerca prenderà pieghe del tutto personali. Si era appassionato alla musica indiana, a quella africana, portava avanti studi matematici, era interessato allʼastronomia e contemporaneamente proseguiva le sue ricerche sul blues. Aspirava a un suono totale, universale. Diciamo pure che la sua era una world music ante litteram”.

Ed è veramente così.

In A love supreme il gong che apre Acknowledgement, primo movimento della suite in quattro parti di cui si compone lʼalbum, è come un segnale che traghetta lʼascoltatore in unʼipotetica Pangea in cui si confondono profumi di incenso, templi seminascosti dalla nebbia e desolati panorami urbani.

Lʼandamento ondivago del brano è il calco su cui gente come Pharoah Sanders e i beniamini del cosiddetto spiritual jazz costruiranno carriere intere.

Il sax che si impenna sullʼincedere ipnotico della sezione ritmica ne farà il momento più noto e celebrato di un disco che dalla presa di coscienza iniziale condurrà al “salmo” (Psalm) finale, passando per gli stadi intermedi di “proposito” (Resolution) e perseveranza (Pursuance).

Tutto è solenne, maestoso, qui e là trionfale. E contemporaneamente impetuoso, veemente, o appunto “selvaggio”. È il paradosso del disco, o se vogliamo il suo – di nuovo – miracolo.

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Nella biografia Blue Trane (pubblicata in Italia da Minimum fax), Lewis Porter riassume il senso del disco sottolineando come i quattro movimenti della suite rimandino “a una specie di pellegrinaggio, nel quale il pellegrino riconosce il divino, decide di seguirlo, cerca e infine celebra con la canzone il risultato raggiunto”.

Per tutti i trentatré minuti di durata della suite, lʼaspirazione religiosa è talmente dichiarata ed esibita che, fosse uscito in unʼaltra epoca, A love supreme sarebbe forse stato accolto con un misto di imbarazzo e accondiscendenza.

Ma nel 1965 era chiaramente un titolo in grado di restituire il respiro di unʼera. Cadeva in un momento particolare sia della storia del popolo afroamericano, sia più in generale di quella generazione che avrebbe fatto dei sessanta un decennio se non altro particolare. Non a caso, fu un successo immenso: “Molti lo comprarono per via della sua spiritualità, non necessariamente perché fossero appassionati di jazz”, ricorda Porter. E mentre riviste di settore come Down Beat e Jazz lo elessero album dellʼanno, in California la nascente nazione hippie prendeva nota eleggendo il sassofonista a guru.

In questo senso è difficile dire quanto A love supreme abbia contribuito alla santificazione sul campo dellʼicona Coltrane, o quanto al contrario sia stata lʼaura semidivina che già circondava il sassofonista a fare del disco quel classico imperituro che ancora è. Di sicuro, la sua influenza non ha potenzialmente mai smesso di riverberare – e non solo in ambito jazzistico: gruppi rock come i Byrds e i Quicksilver Messenger Service, senza Coltrane non sarebbero stati quello che nei loro momenti migliori furono.

Ancora in periodo punk, lʼeco coltraniana la troviamo in formazioni come i Television o i Dream Syndicate, autori per inciso di un brano come John Coltrane stereo blues.

Lʼautore di A love supreme fu anche unʼispirazione per compositori come Terry Riley e Steve Reich.

E ciononostante ricordava sul Giornale della Musica il critico Enrico Bettinello, quello di Coltrane resta un “destino curioso”. Da un parte, cʼè quello che Bettinello chiama “una sorta di esempio orfico e prometeico oltre cui è sembrato quasi impossibile spingersi”, di cui A love supreme è la più somma tra le testimonianze; dallʼaltra, cʼè quello che Coltrane diventa con e dopo il suo disco-manifesto: “un Coltrane poco capito e ancor meno amato”.

A love supreme è un disco di una tale forza, di una tale identità, di una tale compattezza, che è facile capire perché sia tanto ammirato”, mi ha detto sempre Bettinello in una conversazione privata. “Gli è toccato il destino che è toccato a tutti i cosiddetti grandi classici del jazz: unʼidealizzazione un poʼ romantica, ma a conti fatti comprensibile.

Ed è anche facile intuire perché un disco del genere venga venerato da tradizionalisti come Wynton Marsalis: è unʼopera grande e potente, ma non è – strettamente parlando – avanguardia. Però non so, preferisco guardare allʼultimo Coltrane come a un unicum, una specie di percorso in divenire in cui la dolcezza delle Ballads rimbalza coi duetti con Rashied Ali di Interstellar space, o il furore di certi live si riflette in lavori come Ascension. E in mezzo ovviamente cʼè A love supreme”.

Ecco, in mezzo: non alla fine.

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Unʼimmagine che sempre accompagna le agiografie coltraniane è quella del fuoco, della fiamma che divampa e tutto brucia, compresa la vita del musicista. Ed è anche questa unʼimmagine comprensibile, che lo stesso Bettinello si lascia scappare quando parla di Coltrane come di un uomo la cui vita fu “bruciante”.

Però, messa sotto vetro e relegata a furia di celebrazioni in un indistinto empireo dei santi, cʼè sul serio il rischio che questa fiamma nemmeno scaldi più. È lo stesso problema che solleva Tony Whyton nel controverso Beyond A love supreme: John Coltrane and the legacy of an album, un saggio che dopotutto – più che fornire nuove chiavi di lettura – afferma un banale principio di buon senso: e cioè che “alcuni dischi hanno il potenziale di esser letti sia come oggetti reificati e dal significato ormai fissato, sia come significanti culturali fluidi”. Al di là della prosa, quello che Whyton semplicemente suggerisce è che per riscoprire la reale grandezza sia di Coltrane sia del suo magnum opus, il primo passo è affrancare entrambi dal mito.

Ora, da A love supreme sono passati cinquantʼanni e la musealizzazione di unʼopera che già allʼepoca della sua uscita venne percepita come cruciale, è un fenomeno inevitabile e a questo punto irreversibile. A meno che non lo si ascolti, certo. Magari tenendo per una volta a mente che Coltrane non è morto con A love supreme.

Che il suo disco più famoso non fu lʼatto conclusivo di una vicenda che già nel 1965 doveva apparire enorme; semmai, guarda tu, è il contrario: “È il disco dopo il quale Coltrane non torna più indietro”, ricorda Pino Saulo; ma più in generale – forzando un poʼ le date e lasciandosi prendere dallʼentusiasmo delle celebrazioni – è il disco dopo il quale il jazz tutto visse una delle sue fasi più temerarie, creative, esaltanti. E finalmente libero dai completi Brook Brothers, più o meno.

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