09 giugno 2017 13:24

Alla fine si è avverata la previsione che tutti gli osservatori e i sondaggisti avevano fatto nel 2015. Ma con due anni di ritardo: il Regno Unito esce dal voto dell’8 giugno con un parlamento senza maggioranza.

E, paradossalmente, questo scenario si concretizza proprio mentre si rafforza il bipolarismo, che alle precedenti elezioni era stato dato per moribondo da diversi analisti. In controtendenza rispetto a quanto succede nel resto d’Europa, i due partiti tradizionali – laburisti e conservatori – insieme hanno raccolto circa l’83 per cento dei voti, quasi il 16 per cento in più rispetto al 2015, a conferma del fatto che il sistema politico britannico in fondo è ancora saldamente ancorato alle sue vecchie certezze.

A questo punto è poco probabile che presto si torni a parlare di un aggiustamento in senso proporzionale del sistema elettorale, da sempre basato sul maggioritario uninominale a turno unico, il cosiddetto firt past the post.

Senza il polso del paese
A parte le questioni che riguardano le regole elettorali, il vero punto politico è che Theresa May è la seconda leader dei tory di fila a imbarcarsi in una scommessa rischiosissima, con la certezza di vincerla, per poi ritrovarsi ad affrontare una sconfitta bruciante. Lo stesso errore, di leggerezza o di sottovalutazione, che Cameron aveva commesso promettendo il referendum sull’uscita di Londra dall’Europa – convocato per tenere buona l’anima euroscettica del partito e nella convinzione che convincere gli elettori a rimanere in Europa sarebbe stata una passeggiata – l’ha ripetuto Theresa May. Per insipienza, hybris o, più semplicemente, perché non aveva il polso del paese.

La premier ha convocato queste elezioni per rafforzare la sua maggioranza e guadagnare un chiaro mandato personale per negoziare i termini della Brexit. Prima dell’8 giugno in parlamento aveva 331 deputati, una maggioranza piuttosto stabile. Oggi ne ha 316, che non bastano per governare, e difficilmente riuscirà a mettere insieme una maggioranza abbastanza solida, considerato che una riproposizione dell’alleanza con i liberaldemocratici è fuori discussione, viste le posizioni opposte sull’Europa.

Di sicuro, in queste poche settimane di campagna elettorale la premier ha dissipato quel patrimonio di affidabilità e autorevolezza che si era costruita come ministra dell’interno negli anni del governo Cameron, commettendo errori da principiante (la marcia indietro sul meccanismo del finanziamento dell’assistenza agli anziani) e dimostrandosi molto più vulnerabile di quanto l’opinione pubblica credesse.

Il suo più grande errore, tuttavia, è stato nutrire la convinzione di poter sbaragliare i laburisti sulla scorta di sondaggi privati e indici di gradimento. Quando si è trattato di fare i conti con la realtà del paese, le ricette dei tory, ancora incentrate su rigore e austerità, si sono dimostrate poco convincenti per una larga fetta di elettorato.

Corbyn ha toccato gli argomenti più urgenti
Anche perché il leader laburista Jeremy Corbyn ha ottenuto risultati migliori del previsto. Dopo due anni passati a navigare tra rogne di ogni tipo – accuse di antisemitismo, fronde dei propri deputati, passi falsi, e le critiche di chi lo accusava di non avere la statura del leader – e dopo una campagna referendaria sulla Brexit combattuta di malavoglia e con scarsa convinzione, quasi da euroscettico, nelle ultime settimane Corbyn ha potuto finalmente parlare dei temi che gli stanno veramente a cuore, quelli che nel 2015 l’avevano proiettato alla guida del Labour grazie al voto dei militanti.

Il leader laburista ha incentrato il suo discorso sul welfare, sulla lotta alle disuguaglianze, sulle rinazionalizzazione di poste, energia e ferrovie (in un programma da molti accusato di contenere proposte demagogiche e irrealizzabili) e ha fatto un’efficacissima campagna elettorale vecchio stile, sul territorio, galvanizzando i suoi elettori e conquistando centinaia di migliaia di giovani. E, soprattutto, ha parlato degli argomenti che per molti britannici sono i più urgenti: la fine delle politiche di austerità, la scuola, gli ospedali, i servizi pubblici.

Nei dibattiti in vista del voto, insomma, il nodo dei rapporti con l’Europa non è stato la preoccupazione principale degli elettori. Con il consueto pragmatismo, infatti, i britannici hanno archiviato la Brexit, che ormai è considerata un dato di fatto, e hanno guardato avanti: secondo un recente sondaggio, il 70 per cento non è interessato a ripetere il referendum, ma ritiene che la priorità sia negoziare un buon accordo.

I partiti che avevano costruito il loro posizionamento sulla Brexit non hanno raccolto i frutti sperati

Certo, c’è da capire che direzione prenderanno le trattative, in partenza il 19 giugno, e le divergenze in materia sono molto profonde, nell’opinione pubblica e nei partiti, in particolare tra chi è pronto ad accettare dei compromessi e chi è convinto che uscire dall’Ue senza un accordo sia preferibile che piegarsi a intese svantaggiose.

Ma la verità è che i partiti che avevano costruito il loro posizionamento sulla Brexit non hanno raccolto i frutti sperati. I nazionalisti dell’Ukip, com’era prevedibile, sono di fatto scomparsi dopo aver raggiunto il loro obiettivo, mentre gli europeisti del Libdem, convinti di poter raccogliere almeno in parte i voti del famoso 48 per cento che al referendum dell’anno scorso votò no, hanno guadagnato tre seggi, perdendo però mezzo punto percentuale. Un risultato decisamente al di sotto delle attese.

Anche la scelta dello Scottish national party di ipotizzare un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese, con l’obiettivo di rimanere nell’Unione, non ha pagato. I nazionalisti scozzesi hanno perso consensi a favore dei tory e non hanno ripetuto l’ottimo risultato di due anni fa, quando si aggiudicarono praticamente tutti i seggi a nord del fiume Tyne.

Un’altra conseguenza imprevista del voto potrebbe essere il ritorno in auge di Boris Johnson per la leadership dei conservatori. Anche se May ha detto di non avere intenzione di dimettersi, il partito sarà sicuramente attraversato da più di un malumore. L’ex sindaco di Londra era stato tra i più convinti sostenitori della Brexit ma, una volta vinto il referendum, si era fatto da parte, lasciando la guida del governo a May e preferendo accasarsi al ministero degli esteri. A questo punto, per errori altrui più che per meriti propri – a meno di non volergli attribuire una capacità di previsione politica quasi mefistofelica – il suo nome torna prepotentemente di moda.
Per quanto riguarda invece il futuro governo britannico, la situazione pare più complicata. Per adesso si discute di improbabili coalizioni e governi di minoranza. Sembra anche che la premier uscente possa trovare un’intesa con gli unionisti nordirlandesi del Dup. Ma non è nemmeno da escludere del tutto l’ipotesi di una ripetizione del voto. L’ultima volta che i britannici furono chiamati alle urne per due volte nell’arco di pochi mesi fu nel 1974. Anno di terrorismo anche quello. Quelle elezioni furono segnate da due gravi atti terroristici: l’attacco a un pullman di militari a febbraio, tre settimane prima del voto, e le bombe nei pub di Guildford il 5 ottobre, cinque giorni prima della seconda consultazione. In quell’occasione alla fine la spuntarono i laburisti.

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