25 settembre 2019 12:57

Cos’è Roma? In Disagio della civiltà del 1929 Sigmund Freud scrive:

Facciamo dunque un’ipotesi fantastica, che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, una entità in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti.

È una delle più celebri metafore della stratificazione della psiche. Se paragoniamo – come fa Freud stesso – lo psicanalista a un archeologo dell’anima, possiamo immaginare che le rovine siano la psiche e provare a sprofondare in noi stessi come se andassimo a caccia di reperti. Ma è possibile scorrere la metafora anche nell’altro verso e applicare a Roma, alla città eterna, la proiezione della nostra anima. Pensare alla città come un corpo psichico, attraversare la città, tentare di comprenderla, scriverne come si può fare di una biografia interiore.

La voce dell’Encyclopédie française compilata da Denis Diderot su Roma recita:

Risulta dal calcolo che Roma è sei volte meno popolata di Parigi e sette volte meno di Londra… Non ha marina, non manifatture, né traffici. I palazzi tanto vantati non sono tutti ugualmente belli perché tenuti male; la maggior parte delle abitazioni private è miserabile. Il selciato è cattivo, le strade sudicie e strette e non sono spazzate se non dalla pioggia. La città, formicolante di chiese e di conventi, è quasi deserta a oriente e a mezzogiorno. Si dia pure un cerchio di dodici miglia alle sue mura, questo cerchio è riempito da campi e da orti. Ebbe ragione chi disse che i sette colli, una volta ornamento della città, oggi non le servono che per tomba!

Sembra che ci sia un’idea, questa sì atemporale, secondo cui Roma è un’urbe distrutta, demolita, guasta, un sinonimo di un catalogo di rovine (l’incisore Giovanni Battista Piranesi del resto l’ha interpretata così e ha influenzato secoli di immaginario, da De Chirico a Sironi a Fritz Lang: il Piranesi effect), un cumulo di polveri della storia e rifiuti del presente. L’architetto Paolo Portoghesi nel suo ultimo libro Roma/Amor (da poco uscito per Marsilio) s’innamora di un’idea liquida di Roma, uterina, crede all’ipotesi filologica per cui il nome della città derivi da rum (fiume) e narra della sua nascita prima della fondazione di Romolo e Remo.

Prima che il territorio in cui Roma sarebbe sorta divenisse teatro, durante il Quaternario, di un evento cosmico formidabile con il formarsi della più vasta zona vulcanica d’Europa, un golfo occupava la regione compresa a un dipresso tra il monte Amiata a nord e i monti Lepini a sud. Il Tevere aveva la sua foce di fronte all’isola di Cetona, e al posto dei sette colli c’erano solo dei fondali marini. […] E quando le colate che provenivano da nord si arrestarono e cominciarono a essere incise dalle acque, altre colate giunsero da sud quasi a stabilire un equilibrio di forze avverse con una linea di demarcazione che venne pressappoco a coincidere con il corso del Tevere più volte deviato dalle vicende eruttive. Se i vulcani prepararono la giacitura del paesaggio romano fu però l’acqua a plasmarlo nelle sue forme caratteristiche, erodendo rapidamente le tenere rocce tufacee, fino a scavare nel loro corpo valli strette come canali con pareti rocciose e fondi propizi alla formazione di vegetazione selvaggia, le famose “forre” e i “fossi”, le “marane” che come vene e capillari irrorano il tessuto della campagna romana.

Vittorio Giacopini in Roma (Il Saggiatore, 2017) lascia fantasticare al suo protagonista Lucio Lunfardi un’apocalissi acquatica per la città, che la faccia sprofondare di nuovo come in liquor amniotico. Per il protagonista della Vita agra bastava buttare giù il Pirellone per vendicarsi di una città come Milano e fare pari e patta con la presunta civiltà dello sviluppo; per Roma occorre sommergere millenni di storia in un maelstrom.

Franco Ferrarotti in Caput mundi. Dalla metropoli alla baraccopoli: l’anima perduta della città (Gangemi 2013) descrive il declino, se non la catastrofe, come un destino della città. Valerio Mattioli in Remoria (da poco uscito con minimum fax) gira per tutto il libro intorno all’idea che l’unico futuro ipotizzabile per Roma è quello di un escaton, un’apocalisse, una catastrofe.

Come scrive sempre Giacopini in Roma:

In ogni romano è in agguato un Nerone, con la sua lira, che canta e suona e bercia e fa bagordi mentre alle sue spalle arde di fuoco sacro l’urbe intera (‘per rinascere più bella e forte che pria’… con Petrolini).

Senza futuro, perché con troppo passato, troppe profezie. Il vero nodo è che i tentativi di reimmaginarla si scontrano con la permanenza di un passato mitico – cos’altro è Roma se non il suo stesso mito? Perfino la sua storia moderna non coincide con la storia del suo mito? (Andrea Giardina e Andrea Vauchez nel Mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini non si spingono a essere così assertivi, ma quasi). Quello che accade a tutte le città, secondo Lewis Mumford (La città nella storia), per cui è impossibile dare uno slancio nuovo alla vita urbana senza prima capire la natura storica della città, con Roma rischia di trasformarsi in una sorta di incantesimo.

Lo sa qualunque designer o pubblicitario che si deve mettere a lavorare sull’immagine romana: provate a fare un logo di Roma senza il Colosseo o la lupa. Lo sa qualunque scrittore di fantascienza che vuole ambientare la sua storia a Roma: finirà nel dimenticatoio (Ciro Khan), se gli va molto bene nel culto (Guido Morselli), oppure più facilmente nel comico (Gianni Rodari, Ennio Flaiano). Ciò che è nuovo a Roma non può esistere se non ha le stimmate dell’esoterico, dell’immortale. Roma attrae gli artisti internazionali per la possibilità di scriverne ancora una volta la storia del passato. Come William Kentridge, che dopo aver realizzato Triumph and laments sulla sponda del Tevere, in questi giorni insieme a Alexander Calder lavora sul mito della Sibilla cumana per il teatro dell’Opera.

Ma così per esempio anche accade al Grande raccordo anulare, ultima grande riscrittura urbanistica di Roma, che viene interpretato in due capitoli – che sembrano gemellari ma sono opposti – in Roma/Amor di Portoghesi e in Remoria di Mattioli. Entrambi ricordano che quell’acronimo in realtà è il modo in cui l’ingegnere che l’ha progettato, Eugenio Gra, ha voluto eternare il suo stesso nome, ed entrambi trovano in questo cerchio il simbolo di un culto urbano che si contrappone a quello della città fondata da Romolo, città delineata, delimitata, quadrata. Per Portoghesi è il “leggendario anello del Gra, non a torto da Gianfranco Rosi celebrato come chiave di lettura della città attuale in un film enigmatico intitolato Sacro Gra, suggerendo attraverso la relazione fonetica con il Santo Graal, il catino di cristallo usato da Gesù nell’ultima cena, un significato volutamente esoterico”. Per Mattioli, “il Grande raccordo anulare è il centro di Roma. È però un centro che costringe a un rovesciamento, se non altro concettuale: perché nel suo essere centro il Gra non assume le fattezze del territorio concluso, né del campo gravitazionale in grado di esercitare un’attrazione centripeta su quello che lo circonda”.

I due film che hanno restituito – ritrasfigurandola? Edulcorandola? Lirizzandola? – un’immagine di Roma al mondo, La grande bellezza e Sacro Gra, sembrano due film politicamente conflittuali: le piazze Navona e le baracche nell’agro romano, gli intellettuali sfaccendati e i baraccati. In realtà nell’osservarli dalla stessa lente si genera un effetto specchio dato dallo sguardo: i protagonisti di Sorrentino e di Rosi sono turisti urbani, vagabondi che tengono insieme un’etica e un’estetica da nobili decaduti, borghesi depressi, proletari urbani. Quest’attitudine, noi che siamo nati e cresciuti qui, la conosciamo tutti.

“Roma mi ha insegnato la pigrizia, a dormire in piedi”, scrive Ferrarotti. “Solo a Roma ho imparato a diffidare dell’iperattivismo, ho cominciato ad apprezzare un’indolenza, che non è ignavia e neppure accidia”. Questa storia delle peregrinazioni indolenti per Roma non finisce mai, la racconta Mattioli quando scrive di tornare sempre anche a piedi, o in autobus, al quartiere dove è nato e cresciuto, Torre Maura; la racconta Vittorio Giacopini quando si sceglie un alter ego davvero identico a sé per farsi accompagnare nella sua torrenziale Roma; la racconta Hostia di Federico Bonadonna, che – come Claudio Caligari in Amore tossico o in Non essere cattivo – capisce che la devastazione urbanistica porta un contagio nelle lacerazioni personali, familiari, in una periferia sempre più estesa e sempre più anomica; la racconta Matteo Nucci che si inventa una discesa agli inferi nella sua stessa città lungo le sponde del Tevere in È giusto obbedire alla notte; la racconta Emanuele Trevi in tutti i suoi libri e anche nell’ultimo, Sogni e favole, che sono sempre dei racconti iniziatici con facile cabotaggio per le strade romane; la racconta Francesco Pecoraro nello Stradone, in una magistrale narrazione ricorsiva nei luoghi intorno all’Aurelio e Roma nord (questi ultimi tre testi sono editi da Ponte alle Grazie, che sta costruendo una sorta di piccolo canone intorno a quest’immaginario).

Cosa accomuna questi camminatori? Almeno un paio di cose: il disincanto – se non la delusione – per la politica; e l’amore per ciò che è nascosto, oscuro, invisibile. Questo disincanto e quest’amore sono dichiarati in Remoria, Roma e nello Stradrone. I militanti, gli attivisti, sono una delle tante bande che hanno attraversato la storia recente, tra coatti e generoni, borgatari e palazzinari, hipster e rimastini, cinesi e fricchettoni; e le guerre tra bande non hanno mai il crisma di un conflitto all’interno di contratto sociale, vengono prima: sono bellum omnium erga omnes. Che siano i centri sociali (per Mattioli), il partito, ovvero il Pci (per Pecoraro), le istituzioni (per Bonadonna) o i gruppi di sinistra extraparlamentare (per Giacopini), tutto questo impegno non appartiene solo al passato, ma è un movimento inerziale: non ha compreso l’anima pigra di Roma, e soprattutto ha guastato quello che c’era di ancora vitale, di futuro o sviluppo possibile.

Il diritto all’oblio
Restano gli scheletri, gli informi, i moncherini, il velodromo, la tangenziale, il gazometro, lo stadio del nuoto, il luneur: c’è un’intera città potenziale che si può visitare attraversando Roma. E ci sono molte città potenziali da evocare, diversi caronte inattesi a farci da guida come fantasmi: Stefano Tamburini, Claudio Caligari, Gregory Corso, Nico D’Alessandria… Gli sconfitti, gli esclusi, le vittime della città reale. Del resto, che Romolo abbia ammazzato Remo è ancora un delitto invendicato, come la profezia nel Primo re di Matteo Rovere. E forse nell’allegria dei naufraghi si sta bene solo quando si finisce spiaggiati, come Accattone morto sull’asfalto nell’ultima scena del film di Pasolini: “Ah, mo sto bene”.

Nel libro di Domenico De Masi, anche questo uscito da poco, Roma 2030 c’è una citazione seducente ma non adeguatamente sfruttata, ed è al concetto di Timothy Morton di “iperoggetti”. Gli iperoggetti sono per Morton delle realtà che esorbitano dalla nostra capacità di oggettivarle, di conoscerle; l’esempio più classico è il riscaldamento globale.

La suggestione di considerare Roma 2030 come un iperoggetto è accomunata a quella di vederla sparire, bruciata come da Nerone o sepolta dall’acqua. Il suo mito, incollato sul presente, è tanto forte che la sensazione è che se si vuole davvero ripensare questa città, essa dovrebbe cancellarsi, esplodere, scomparire. La città che ha inventato la distruzione di altre civiltà, la damnatio memoriae, la delenda Carthago, dovrebbe esporre se stessa a quest’esercizio di autoannullamento, o almeno di oblio.

Dimenticare Roma: se non ci riusciamo seguendo quegli esercizi spirituali da naufraghi urbani che propongono Pecoraro e Mattioli, Giacopini o Trevi, possiamo provarci almeno considerando che questa città è sempre meno una città speciale, ma una qualunque provincia del globo, una grande periferia senza centro, una borgatasfera, un luogo meno mitico, ma magari più amato.

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