22 giugno 2017 15:51

Gentile bibliopatologo,
il mio caro amico Nicola ha avuto due contrattempi di salute un po’ scabrosi dovuti a una patologia che definisce “Zelig del lettore”. Si stava appassionando a La versione di Barney di Mordecai Richler e ha avuto seccature uretrali, la settimana scorsa leggeva Il giorno dell’indipendenza di Richard Ford e gli è venuto un problema a un testicolo, come a uno dei protagonisti. Mi ha confidato che è un po’ allarmato circa la scelta delle prossime letture. Cosa gli consiglio?

–Marco

Caro Marco,
un medico dell’epoca di Paracelso avrebbe prescritto al tuo amico Nicola una cura a base di orchis, una pianta con due bulbotuberi così simili a dei testicoli che si credeva avesse proprietà magiche per guarirli. “Orchis” in greco sta appunto per testicolo, e nella mente di un alchimista cinquecentesco le parole non erano etichette arbitrarie appiccicate al mondo: un legame tra i nomi implicava un nesso occulto tra le cose. Ma la smetto di romperti i bulbotuberi con queste stravaganze erudite, e passo a un esempio più comune. Hai mai sussurrato sconcezze irripetibili nell’orecchio di una sconosciuta in tram? Ecco, non farlo, perché è tuo dovere di gentiluomo e perché incapperesti nell’art. 660 del codice penale.

Chi dice oscenità, ha scritto Freud nel Motto di spirito, costringe la persona aggredita a immaginarle. Le parole oscene hanno un potere evocativo fortissimo, imperioso, vorrei dire magico: riescono a rendere presenti le cose che designano, come fossero davanti ai nostri occhi. Se alludi a una parte del corpo usando un termine volgare ne susciterai l’apparizione dal nulla, come un mago rinascimentale. Lo stesso non vale con le denominazioni scientifiche o con le parole straniere, il cui potere è attenuato o inesistente – quindi, se proprio devi importunare una sconosciuta, dille “testicolo”, “orchis” o al limite “bulbotubero”.

Commentando quella pagina di Freud, il suo allievo ungherese Sándor Ferenczi ha fatto un’osservazione che mi pare molto profonda: “Le parole oscene possiedono attributi che tutte le parole possedettero in una fase primitiva dello sviluppo psichico”. Non che tutte le parole fossero un tempo parolacce, beninteso, semmai tutte le parole avevano il potere evocativo delle parolacce. Per il bambino piccolo ogni parola è una formula magica, un amuleto benigno o nefasto; poi va a scuola, impara a leggere e a scrivere, scompone le parole nei mattoncini dell’alfabeto, smonta il giocattolo e ne vede esalare l’anima. Quell’aura magica che un tempo respirava ovunque andrà a rintanarsi in alcune zone recintate (la poesia, la canzone, magari la preghiera) e soprattutto si addenserà nei quartieri a luci rosse del linguaggio.

Ti chiederai cosa diamine c’entra tutto questo con l’orchite del tuo amico Nicola. Ti rispondo con una triade misteriosa, che sarebbe un titolo perfetto per un western, magari un bel western freudiano alla Raoul Walsh: il bambino, il selvaggio, il nevrotico. La psicoanalisi spesso li ha accomunati. Come i bambini piccoli, anche i “selvaggi” – oggi nessuno si sognerebbe di chiamarli così – hanno con le parole una relazione magica, ne temono e ne venerano il potere. Altro modo per dire che nelle civiltà arcaiche, o se preferisci nelle culture orali, tutto il linguaggio aveva gli attributi di cui troviamo un’eco nel turpiloquio. Ricordi Ulisse che si fa legare all’albero della nave per non soccombere al canto delle sirene? Non c’è immagine migliore per fare intuire la potenza primordiale della parola.

Nicola non è un bambino né un selvaggio. Ma sicuramente è un nevrotico coi fiocchi, l’ultimo personaggio del nostro terzetto western, e l’unico costretto a fare i conti con il disagio della civiltà. Ha imparato a leggere e a scrivere, d’accordo, ma non è riuscito a lasciarsi alle spalle del tutto il bambino e il selvaggio. I suoi strani sintomi sono forse i residui di un mondo tramontato dove le parole avevano il potere di suscitare malattie, di scatenare possessioni, di allacciare vincoli magici. Richard Ford parla di testicoli e lui sente subito una fitta laggiù, come se lo scrittore avesse trafitto con uno spillone i bulbotuberi di una bambola vudù. Insomma, il tuo amico si trasforma in tutto ciò che legge, muta forma a seconda degli esseri di carta che incontra, ma questo non fa di lui uno Zelig, piuttosto fa di lui uno sciamano (Zelig, d’altronde, è lo sciamano moderno quintessenziale).

Quando Nicola riconoscerà e accetterà i suoi poteri sciamanici, potrà guarirsi da solo. Nel frattempo, ecco, io eviterei di fargli leggere Il malato immaginario di Molière.

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