24 novembre 2017 16:04

Gentile bibliopatologo,
amo le donne ma non leggo volentieri i romanzi scritti da donne. La mia biblioteca è sempre stata decisamente sessista. Poi però quest’anno ho pianto leggendo L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio e La vegetariana di Han Kang. Cosa mi succede? Sto guarendo?
– Osvaldo P.

Caro Osvaldo,
tu mi vuoi rovinare. Quando nel 1856 la Westminster Review pubblicò l’articolo anonimo Silly novels by lady novelists, un’invettiva contro quella che potremmo definire la chick lit vittoriana, nessun lettore avrebbe sospettato che dietro un titolo così sarcastico potesse celarsi una donna, Mary Anne Evans, destinata per giunta a diventare famosa con un nome di uomo, George Eliot. E tu, candido e temerario Osvaldo, non solo dichiari di non leggere di buon grado gli “sciocchi romanzi delle signore romanziere”, non solo esordisci con la ferale premessa “amo le donne ma…”, calco di quel “non sono razzista ma…” che smaschera infallibilmente l’affiliato del Ku Klux Klan in borghese, ma – cose da pazzi! – ti firmi pure con nome e cognome? Due maschi che parlano di misoginia letteraria nei giorni dell’ira, e se non dell’ira dell’irascibilità, suscitata dal caso Weinstein e dagli altri casi, casetti e casini alla periferia dell’impero: questa sì che è una bella pensata suicida.

La prudenza mi consiglierebbe una risposta secca: sì, stai guarendo. Stai guarendo perché la tua biblioteca, celibe prima ancora che sessista, aveva proprio bisogno di ospitare una folta delegazione di lady novelists; ma stai guarendo anche perché non ti fai scrupolo di confessare che leggi libri scritti da donne nel modo in cui, secondo un cliché ottocentesco duro a morire, potrebbe leggerli solo una donna: con i lucciconi agli occhi e un fazzoletto umido in mano. Ma la verità, caro Osvaldo, è che sei ancora ben lontano dal guarire; perché questa tua confessione, all’orecchio di uno psicoanalista, susciterebbe facilmente il sospetto che tu stia mettendo in atto una manovra tortuosa di ipercompensazione, un autodafé così teatrale e parodistico da rivelare un’ostilità inconscia – che poi è grosso modo quello che Theodor Reik pensava del travestitismo: fare il verso alle donne perché segretamente le si disprezza. Non ti pare di scontare il contrappasso di un altro vecchio pregiudizio misogino, quello secondo cui, come scriveva nel 1893 Cesare Lombroso, le poche donne di genio “paiono uomini travestiti”? È tutto un gran carnevale.

Dovrei finirla qui, ma una connaturata spericolatezza mi sprona a continuare. Confesso, sono stato anch’io un lettore misogino, ostentatamente misogino. Per tutta la mia prima giovinezza la mia biblioteca pareva una di quelle discoteche di provincia un po’ tristi, pressoché disertate dalle ragazze ma piene fino a scoppiarne di maschi malvestiti e maleolenti. In piedi, in un angolo, Cristina Campo e Simone Weil se ne stavano imbarazzate con il loro mistico cocktail in mano, sotto gli occhi curiosi e spaventati di Jules Laforgue (il mio migliore amico di allora), Otto Weininger, Arthur Schopenhauer, più tutto il gruppo dei misogini locali, da Carlo Dossi ad Alberto Savinio a Carlo Emilio Gadda, che parlottavano solo tra di loro e, ovviamente, non ballavano nemmeno sotto minaccia. Che scenetta deprimente, vero?

Ho cominciato a venirne fuori, e a mettere insieme la biblioteca molto allegra e promiscua che ho oggi, quando ho capito che la misoginia non è solo un attributo occasionale di alcuni scrittori; è il peccato originale, la molla nascosta di intere vocazioni letterarie. Si comincia a scrivere (e a leggere) per vendicarsi delle donne o della Donna, per esorcizzarne la minaccia, che specie negli anni della pubertà è avvertita come una minaccia mortale. Quanti ragazzini di talento si sono inchiostrati, ingobbiti o hanno perso diottrie mossi dal risentimento, dal desiderio segreto di ergersi al di sopra della compagna di scuola bella e civetta che li ignorava, quanti hanno sentito il bisogno di inventarsi un personale gioco dell’oca, della femmina superficiale e vanitosa, solo per magnificare la propria volontà di potenza!

Da secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi dal potere magico e delizioso di riflettere la figura dell’uomo ingrandita fino a due volte le sue dimensioni normali. Come farebbe l’uomo a scrivere libri se non fosse più in grado di vedere sé stesso, a colazione e a cena, ingrandito almeno due volte la sua stessa taglia?

Ecco, le righe che hai appena letto non sono mie, sono di Virginia Woolf, mi sono travestito da lei per essere più persuasivo. Te l’ho detto, è tutto un gran carnevale.

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