15 febbraio 2018 14:53

Gentile bibliopatologo,
mi domando spesso come facciano gli scrittori, soprattutto quelli giovani, a pronunciarsi su cosa hanno in testa i loro personaggi. Questa cosa mi affascina moltissimo: mi guardo intorno e non faccio altro che chiedermi perché la gente si comporta in quel certo modo, e se sentono le stesse cose che sento io, così non posso che provare invidia per gli scrittori che con tanta leggerezza riescono a entrare nella testa dei loro personaggi. Questa abilità deriva dall’esperienza, dalla visione di innumerevoli casi o è un puro e semplice esercizio letterario?
–Raul Buha

Caro Raul,
potrei tagliar corto dicendo che la tua invidia non ha ragion d’essere: tu faticherai pure a calarti nei pensieri e nei sentimenti della gente, ma stai parlando di persone in carne e ossa; se gli scrittori entrano tanto facilmente nelle teste dei loro personaggi è perché quelle teste non esistono, o meglio esistono solo nella loro testa, le hanno inventate loro e possono scoperchiarne il cranio a piacimento. Allo stesso modo, ogni maschio tredicenne (ma a volte la faccenda va avanti fino alla terza o quarta età) si costruisce nella mente una Playboy Mansion in cui occupa il ruolo di Hugh Hefner, e va a visitarla almeno una volta al giorno, senza incontrare particolari resistenze da parte delle inquiline.

Sarebbe una risposta ben misera, però, perché a suscitare la tua invidia è la capacità dei romanzieri di tirar fuori dalla propria testa delle teste immaginarie così verosimili che, quando ne trascrivono sulla carta i pensieri, danno l’impressione di star visitando una testa reale. E questa dote fai bene ad ammirarla, se non a invidiarla.

Io ho provato qualcosa di simile davanti ai Buddenbrook, perché quando l’ho letto avevo la stessa età che aveva Thomas Mann quando ha cominciato a scriverlo: ventidue anni. Come diavolo faceva un mio coetaneo a raccontare la storia di una famiglia attraverso quattro generazioni, descrivendo con tanta intelligenza del cuore umano e tanta generosa minuzia i sentimenti, i pensieri e i gesti di personaggi appartenenti a tutte le età della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, mentre io non avevo idea neppure di cosa passasse per la testa di mia cugina di cinque anni o di mia nonna?

E ti credo, mi dirai tu: quello era Thomas Mann, tu no. Potrei dartela vinta e finirla qui, anche perché la tua domanda solleva questioni un po’ troppo grandi per le pretese di questa rubrica, e il più indicato a risponderti è un personaggio nella cui testa, pur con tutto lo sforzo, proprio non saprei entrare: il teorico della letteratura. Quindi considera chiusa la consulenza bibliopatologica e accontentati, a margine della seduta, di un paio di riflessioni temerarie e orgogliosamente infondate.

Se Ezra Pound non fosse intervenuto con le sue cesoie, La terra desolata di T.S. Eliot si sarebbe aperta con una sezione dal titolo bizzarro: “He do the police in different voices”. È una frase di un romanzo di Charles Dickens, e a pronunciarla è una vedova a proposito di un orfanello: “Non lo pensereste, ma Sloppy è un ottimo lettore di giornali. Rifà la polizia con varie voci”.

Così come l’orfanello sapeva interpretare gli articoli di cronaca nera con estro di attore, abbinando voci diverse ai diversi protagonisti, così Eliot nel poema si proponeva di fare il verso a tutti, dai grandi scrittori del canone occidentale come Shakespeare o Baudelaire agli avventori di un pub poco prima della chiusura.

Quel titolo mancato di Eliot mi torna in mente quando penso che, ben prima che esistessero gli scrittori e si dedicassero a quella strana forma di magia naturale chiamata letteratura, c’era stato qualcuno che aveva il compito, per dolorosa elezione soprannaturale, di rifare le voci. Se leggi la grande opera di Mircea Eliade sullo sciamanesimo scoprirai che lo sciamano imita le movenze e i versi degli animali, specie i gridi degli uccelli. E l’accesso per via mimetica a questo linguaggio segreto è “un nuovo segno del fatto che lo sciamano può circolare liberamente nelle tre zone cosmiche: Inferno, Terra, Cielo, vale a dire, che egli può penetrare impunemente là dove soltanto i morti o gli dèi hanno accesso”.

Ecco, se Mann a ventidue anni sapeva rifare “con varie voci” tutta la gamma sonora della famiglia Buddenbrook, dal vecchio patriarca Johann al giovanissimo rampollo Hanno, calandosi nel loro mondo interiore come per possessione e dialogando con gli spiriti degli antenati di quei mercanti di Lubecca, vuol dire che era una specie di sciamano. Tutti i grandi romanzieri lo sono. I meno grandi magari sanno fare il verso ai loro amici, parenti e colleghi – ed è già qualcosa.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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