16 novembre 2018 13:10

Gentile bibliopatologo,
conosco di persona molti scrittori. Alcuni li frequento come amici, con altri collaboro in vari progetti. Quando pubblicano un libro nuovo, immancabilmente mi invitano alle presentazioni e mi regalano una copia con dedica. Eppure, non ho il minimo interesse a leggerne una sola riga: li ringrazio e seppellisco il libro nella mia biblioteca. Il fatto è che conoscendo l’autore e, non di rado, venendo messa a parte dei vari stadi della gestazione letteraria, non riesco a interessarmi al romanzo finito, di cui mi sembra di conoscere in anticipo gli sviluppi. Temo che senza una sua diagnosi non riuscirò a correggermi da sola.

–Ines

Cara Ines,
mai, per nessuna ragione, entrare nelle cucine di un ristorante: è il consiglio che danno tutti quelli che ci hanno lavorato anche solo per una settimana o due. Vale lo stesso per l’arte, dove non è questione di igiene o di camerieri indispettiti che ti sputano nel piatto, ma di gusto. Orson Welles confidò a Peter Bogdanovich che dai tempi del suo approdo a Hollywood, alla fine degli anni trenta, non era più riuscito a godersi il cinema:

Davanti a ogni scena vedi il fantasma del macchinista col ciak. La famosa sospensione dell’incredulità; la mia ha avuto una sorta di incidente, quando sono passato dietro alla macchina da presa.

Nelle cucine del romanzo si affaccendano editor e correttori di bozze delle case editrici, critici e biografi, storici e filologi specializzati in variantistica, più altri personaggi variamente gallonati – dal garzone al maître di sala del ristorante letterario. Il lettore comune, fidati, è bene che si veda recapitare in tavola il libro già cucinato e guarnito, e che stacchi il meno possibile gli occhi dal piatto.

Cos’è, mi dirai tu, un deliberato esercizio di autoinganno? Forse; ma è prima ancora un invito a salvaguardare un sano rapporto tra la ribalta e il retroscena. Del resto la vita quotidiana è un grande teatro a cielo aperto, come ha mostrato il sociologo Erving Goffman, uno spettacolo ininterrotto fatto di quinte e di palchi e di fondali via via più intimi, via via più addentrati; e ci sono forme di prestigio e di auctoritas che non sopravvivono facilmente a un’esposizione troppo insistita del camerino, dell’attrezzeria di scena, del baule, dei costumi e delle prove davanti allo specchio.

Phil Ashley, Getty Images

La distanza è una buona misura precauzionale, affinché la persona empirica dell’autore non getti un’ombra molesta sulla sua opera e la lasci vivere in pace tra i lettori.

Ma come, dirai tu, Gustave Flaubert non ha forse scritto “Madame Bovary c’est moi”? Ti do una brutta notizia: quella formula è apocrifa, non la si incontra negli scritti di Flaubert, tutt’al più potrebbe averla detta privatamente a qualcuno; e scommetto che quel qualcuno non si è goduto troppo la lettura del romanzo. In compenso, Flaubert ci ha fatto entrare nella cucina letteraria di Rodolphe, l’amante della protagonista, per mostrarci la stesura machiavellica della sua lettera di addio. Questo è il tipo di frasi che legge Emma, piene di afflato melodrammatico: “Il solo pensiero della disperazione in cui avrei potuto gettarla, mi tortura. Emma! Mi dimentichi! Perché l’ho incontrata? Perché è così bella? È stata colpa mia? Oh, mio Dio, no! No! Incolpi soltanto la fatalità”.

Ma dopo averla vergata, lo scaltro Rodolphe dice fra sé e sé, compiaciuto: “Ecco una frase che fa sempre effetto”. E ancora: “Mi sembra di aver detto tutto. Ah, ancora una cosa, per essere sicuri che non venga a riacciuffarmi”. E giù con altre frasi pompose e strappalacrime.

Non ti dico di rompere i rapporti con i tuoi amici scrittori. Ma chiedi a ciascuno di loro la cortesia di non metterti a parte della gestazione dell’opera; e pregali anche, una volta che il libro è stato pubblicato, di recapitartelo in forma anonima, con la copertina foderata di carta da pacchi e il frontespizio strappato, per rendere illeggibile il nome dell’autore. Funzionerà? Ne dubito. Ma io te l’avevo detto che era meglio non sbirciare nelle cucine.

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