18 gennaio 2019 17:22

Caro bibliopatologo,
non riesco a immettermi nel flusso della prosa: ho la sensazione che le parole mi sfuggano via, quindi mi stufo e mi distraggo facilmente. Mi sembra, invece, che le parole della poesia siano più dense di significato, come delle bellissime murrine da osservare a una a una. Sento che solo la poesia può saziare la mia fame di intensità, mentre in un romanzo faccio fatica a trovare quello che cerco. Ho forse dei problemi di concentrazione o di logica?

–Marta

Cara Marta,
hai mai osservato il volo dei gabbiani o dei rondoni? Da bambino, affacciato al balcone di una casa di villeggiatura, potevo passarci le ore. Li vedevo sbattere l’aria con accanimento fino a prendere quota e poi, le ali immobili e dispiegate, incidere senza sforzo le loro limpide traiettorie nell’azzurro. Anche molti rapaci, come l’aquila o il falco, volano pressappoco così.

Qualcosa di simile accade nella vita di ogni lettore. Quando da piccoli ci insegnano a leggere, sperimentiamo un continuo attrito: dapprincipio ogni lettera è un impaccio, un ostacolo; con fatica sorvoliamo la distesa di una frase e conquistiamo esausti l’approdo del punto fermo. Nell’impresa ci aiutiamo sillabando con la voce, o con il movimento delle labbra, e solo dopo un lungo apprendistato l’occhio riesce a planare sulla pagina. Diventa possibile perfino leggere distrattamente, meccanicamente, scorrendo righe su righe senza prestare ascolto a una sola parola – per poi scivolare nel sonno.

Questo passaggio che per il lettore singolo si compie nella tarda infanzia, per la nostra civiltà è avvenuto intorno al diciottesimo secolo, come ricorda Rosamaria Loretelli in un saggio che ti raccomando, L’invenzione del romanzo:

Allora in Occidente si superò quello spartiacque al di là del quale, in una parte consistente della popolazione, la lettura divenne quale essa è oggi, cioè veloce e silenziosa, interamente demandata alla vista.

Potevamo librarci sulle parole senza muovere le ali, scordandoci di avere un corpo e un peso, aiutati da pagine anch’esse terse come un cielo sgombro: la nitidezza della scrittura tipografica ci faceva dimenticare la materialità impervia dei manoscritti, e i libri erano ormai così maneggevoli che non c’era più bisogno di stare in piedi davanti a un leggio sotto una volta gelida. Avevamo imparato a volare come rapaci, ora ci servivano storie da divorare. Fu così che inventammo il romanzo, la forma narrativa ideale per nutrire questo nuovo modo di lettura forsennato e vorace. E per diminuire ancor più l’attrito, mettemmo a punto quello che Baudelaire considerava una delle sciagure del suo secolo: lo stile scorrevole.

Gregoria Gregoriou Crowe, Getty Images

Se mi hai seguito fin qui, cara Marta, avrai capito che non hai problemi di concentrazione, semmai ne hai un bisogno vitale. Sei una ragazza centripeta in un’epoca centrifuga. Non vuoi sorvolare distrattamente un panorama in fuga o vederlo scorrere dal finestrino di un treno, vuoi poterti soffermare su ogni sasso del selciato, studiarne la forma, saggiarne il peso, avvertirne l’attrito, incontrare di nuovo quelle resistenze e quelle asperità che abbiamo tentato per secoli di rimuovere, fino al trionfo immateriale della parola elettronica.

“On ne relit point un roman”, aveva detto nel 1745 il moralista Vauvenargues, sentendo venire da lontano uno stormo di lettori rapaci. La poesia, al contrario, pretende di essere riletta, meglio se a voce alta, e ogni parola reclama una sua speciale venerazione. “Alzavamo gli occhi verso i nomi”, si legge in una magnifica poesia dell’irlandese Séamus Heaney, In illo tempore, dove non è chiaro se l’epoca aurorale sia l’infanzia del lettore o l’infanzia dell’occidente – o forse entrambe. La poesia si apre con l’immagine di un grande messale spalancato sul leggio. Ma nei versi finali, guarda il caso, ricompaiono i nostri uccelli marini, e con essi la nostalgia di un appiglio sulla terraferma:

“Ora abito accanto ad una spiaggia famosa
dove i gabbiani gridano nelle ore piccole
come anime incredibili

e perfino il muro di cinta del lungomare
che io premo per sentirmi convinto
a mala pena mi induce a credere”.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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