23 maggio 2019 16:47

Gentile bibliopatologo,
alcuni libri mi hanno completamente assuefatto. Mi piace leggere ogni cosa, ma ci sono titoli che continuano a perseguitarmi. Il nome della rosa, Il Gattopardo, La casa degli spiriti, La trilogia della città di K… Alcuni li ho letti anche dieci volte: perché non mi stancano mai? Ho sviluppato un ossessione? Mi dispiace non poter allargare i miei orizzonti di lettura viste le continue “ricadute”.

–Alberto

“Siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità”, scrive l’apostolo Paolo agli Efesini. Ma quando si tratta di cultura, in questi tempi in cui tutto è facilmente accessibile e la varietà delle cose da leggere, da ascoltare o da vedere ci stordisce, sembriamo ricordarci solo dell’ampiezza. Hai paura, caro Alberto, di non poter “allargare” i tuoi orizzonti di lettura? Cambia metafora, allora! In un articolo del 1966 intitolato “La cattiva coscienza delle parole”, il grande Elémire Zolla ragionava sull’onnipresenza delle metafore orizzontali nella nostra società: “ampi” scambi di pareri, “vasti” poteri, campi d’indagine che si “allargano”, orizzonti che si “ampliano”. Ma come insegna l’arte del cruciverba le parole si dispongono anche sull’asse verticale, ci sono l’alto e il basso, lo zenit e il nadir, le vette e gli abissi. Se torni sempre agli stessi libri, un po’ è per il piacere tutto infantile di farti raccontare mille volte un’identica favola, un po’ è perché, suppongo, avverti confusamente che in quei relitti c’è ancora qualche scrigno di pietre preziose sfuggito alle precedenti razzìe. E allora immergiti, subacqueo!

Cintascotch/Getty Images

Caro bibliopatologo,
ultimamente sono rimasta relativamente “delusa” dal finale di alcuni romanzi che ho letto. La mia delusione riguarda non tanto i contenuti, ma la forma; forse pretendo troppo e probabilmente le mie pretese sono superficiali e vacue, ma arrivata alle ultime righe e alle parole in cui sono state fatte terminare per sempre storie struggenti e brillanti, ho sospirato: mi aspettavo di meglio.

–#petulante91

Hai dimestichezza con i giochi delle feste di paese? Ogni romanzo è una corsa con l’uovo nel cucchiaio. Uno scrittore può percorrere con sicurezza metri su metri, ma se fa la frittata a un passo dal traguardo il regolamento parla chiaro: ha perso la gara. L’ha persa? Ecco, cara #petulante91, dopo quel legittimo sospiro di delusione guardati indietro, e ripensa alla varietà dei paesaggi, alle deviazioni vertiginose, agli ostacoli torreggianti che quel generoso corridore ti ha fatto attraversare portandoti in spalla. Non conta solo l’ultima frase. Ci sono poesie, romanzi e racconti salvati in articulo mortis da un finale sonante come un gong, ma quando ti guardi alle spalle è il deserto. Da tempi ben lontani i teologi si sono interrogati su dilemmi come questo: un uomo che muore in flagranza di peccato sarà dannato, o l’eterno giudice soppeserà il bene e il male che ha fatto nel corso di tutta una vita? Io dico che uno scrittore può dirsi bravo, o perfino grande, se nonostante la frittatina può dire, come l’apostolo nella seconda lettera a Timoteo (oggi va così: mi sento paolino): “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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