27 giugno 2019 17:24

Gentile bibliopatologo,
ho una scarsa considerazione per i classici. Posso leggere qualsiasi cosa, purché non si usi lo status di “classico” per aumentarne il valore. Il semplice nominare la parola (“Te lo consiglio, è un classico!”) mi mette in allarme. Vedo uno scalpello che si alza e, con colpi inesorabili, incide in lapidario romano CLASSICO su una pesante lastra di marmo, che oscilla verso di me. Devo quindi essere rapida nello scansare il classico, per non rimanerci sotto. Nel mio lavoro è una difficoltà, visto che sono bibliotecaria. Mi si stringe il cuore però quando devo somministrare il CLASSICO a bambini e ragazzi non ancora convinti che leggere sia bello, su richiesta di insegnanti, genitori, nonni, zie. Loro probabilmente, con ipocrisia tutta adulta, per quello che li riguarda non lo frequentano affatto.

–Una bibliotecaria

Cara bibliotecaria,
cos’è un classico? Per scoprirlo dovremmo leggere i classici sul classico che portano quello stesso nome, Qu’est-ce qu’un classique? di Sainte-Beuve e What is a classic? di T.S. Eliot. Ma per capire a sua volta cosa rende classici questi due testi sul classico rischieremmo di imboccare la pericolante scala a chiocciola del regressus in infinitum, senza mai toccare il pavimento: risparmiamoci, ti prego, questo supplizio mitologico. I saggi di Italo Calvino o di Giuseppe Pontiggia sui classici sono anch’essi classici, o dobbiamo aspettare qualche decennio per compiere fino in fondo il processo di beatificazione letteraria? E i Grandi Classici Disney, vogliamo considerarli? E quando diciamo di qualcuno che è il classico imbecille, che cosa abbiamo in mente, di preciso? La nozione di classico è non meno esasperante di quella di mito, o di altre parole dai vaghi contorni che si gonfiano come vele panciute e fremono sotto tutti i venti della retorica.

Non per caso la tua immagine del classico – lo scalpello che incide maiuscole intimidatorie su una lastra potenzialmente letale – è della stessa materia estetica di cui sono fatti i peplum, quei film pacchianissimi tutti in marmo e oro ambientati nell’antica Roma. Comprensibilmente, vuoi fare in modo che i giovanissimi lettori non siano costretti a trasportare sulle spalle quei pesi, come antichi schiavi, con il rischio di finire schiacciati. Così però, senza avvedertene, la dai vinta ai loro insegnanti, genitori, nonni, zie, e sottostai anche tu, sia pure per respingerla, a quell’idea monumentale e antiquaria dei classici, diciamo pure a quella fantasia punitiva di un Super-io letterario che ci fa sentire inadeguati.

Valerie Pirri, EyeEm/Getty Images

Placa i venti gemelli della retorica e dell’antiretorica, e una volta ristabilita una sana bonaccia prova a pensare ai classici non già come monumenti, ma come vie o piazze di un’immaginaria Repubblica delle lettere, piene di vetrine e di passanti, per cui sono transitate generazioni di lettori. Chi a passo svelto, chi a passo lento. Chi per cercare compagnia, chi per rifuggirla. Chi per far compere, chi perché la mamma lo ha mandato a far compere ma sul tragitto ha trovato lui pure qualcosa di buono o di curioso. E i tanti lettori che non sono mai passati di là, sanno comunque che quella via o quella piazza esiste sulla mappa, e che un giorno potrebbe esser bello farci un giro, perché se è tanto visitata un motivo ci sarà.

Perciò, quando un adolescente si presenta al tuo banco con l’aria afflitta, perché vorrebbe passare il sabato pomeriggio a far lo struscio al corso ma gli hanno prescritto Dickens, prova a instillargli il dubbio che Dickens sia una variante dello struscio al corso, e che di sicuro tra quelle pagine farà incontri più interessanti di quelli che normalmente si fanno per le vie di una grande città. Funzionerà? Ne dubito. Ma almeno avrai segnato un cerchietto a penna nella sua mappa mentale. Se tutti ci hanno trovato qualcosa, si dirà, perché non io?

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