13 gennaio 2020 15:34

Gentile bibliopatologo,
ho ventisette anni e sono sempre stata la bambina ossessionata dai libri. Oso scriverle perché da anni sono ossessionata dalla mia lentezza. Alle medie passavo notti insonni a leggere sotto le coperte, torcia in mano. La lettura era una via di fuga da un padre emotivamente abusivo, dalla mia vita in gabbia, mi dava speranza. Al liceo, però, qualcosa è cambiato: una situazione sempre più difficile a casa, la mia depressione, l’abbandono dei libri perché non avevo abbastanza energie per concentrarmi su nulla. Quel periodo è ormai finito, ma ha lasciato degli strascichi pesanti: tuttora trovo difficilissimo concentrarmi per leggere in modo non superficiale. Continuo a comprare libri su libri, adoro entrare in libreria o in biblioteca, voglio sempre vedere dei volumi sul mio comodino. Finire un libro mi fa sentire bene, ma anche in colpa per il tempo impiegato per leggerlo. Ho perso il piacere della lettura, e vorrei ritrovarlo. Esiste un modo per tornare a essere quella bambina che faceva l’alba a furia di leggere?

-Elisa

Cara Elisa,
il regista Paolo Sorrentino racconta che Fellini, in un momento di grande difficoltà, si era messo a incontrare freneticamente psicoanalisti: “A ciascuno si presentava cortese, si sedeva di fronte, estraeva una foto di se stesso a tredici anni e, con la voce candida che ce lo ha fatto amare, diceva pacato mostrando la foto: ‘Dottore, io voglio tornare a questa foto. Lei mi può aiutare?’”.

La tua lettera, che ho dovuto accorciare senza pietà, domanda qualcosa di molto simile, con la differenza che gli psicoanalisti sono tanti, il bibliopatologo uno solo – e neppure dei migliori. La mia risposta suonerà forse banale, ma temo di non averne altre: no, non sarai mai più quella bambina che faceva l’alba a furia di leggere. Forse tornerai a far l’alba con i libri, ma l’unica via per arrivare fin lì è attraversare la nottata senza voltarti indietro, altrimenti come la moglie di Lot ti troverai trasformata in una statua di sale. Il rimpianto per quella foto che cerchi disperatamente di riportare in vita è il più grande ostacolo sul tuo cammino: devi imparare a congedartene.

Rogkov, Getty Images

Quando perse la madre, Roland Barthes passava il tempo sfogliando le sue fotografie nella speranza di ritrovarla. Niente da fare: tutte le immagini lo lasciavano deluso e avvilito. Finché non si imbatté in quella che chiama la Fotografia del Giardino d’Inverno, su cui gli sembrò che aleggiasse un’essenza. Era una foto della madre da piccola: “Per smorta che sia, la Fotografia del Giardino d’Inverno è per me il tesoro dei raggi che emanavano da mia madre bambina, dai suoi capelli, dalla sua pelle, dal suo vestito, dal suo sguardo, quel giorno”. Da qui si snoda un itinerario interiore che lo porta a riflettere sul tempo, sulla morte, sul ponte pericolante che l’amore getta tra l’uno e l’altra, sulle seduzioni dell’istante immagazzinato dalle immagini, sugli inganni della memoria. È lo stesso itinerario che devi compiere tu nella tua notte oscura di lettrice.

Conservi per caso una foto di te bambina che leggi? Tirala fuori da qualche vecchio album, e usala come segnalibro per La camera chiara di Barthes. Oso sperare che farai l’alba.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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