Che futuro può avere un paese che uccide i suoi giovani? In Iran il sangue scorre ormai da più di due mesi. Il regime è abituato alla repressione, e nessuno mette in dubbio la sua determinazione nel mettere a tacere chi lo contesta. Ma l’arma della paura sembra non funzionare più, sovrastata dall’intensità della rabbia.

Innescata il 16 settembre dalla morte di Mahsa Jina Amini, una ragazza arrestata a Teheran perché non indossava correttamente il velo, l’ondata di proteste sembra raccogliere i risentimenti accumulati nei decenni: dal rancore dei giovani delle città, senza nessuna prospettiva in un paese chiuso ed emarginato, alla rabbia delle minoranze etniche perseguitate, come i curdi o i beluci.

Davanti a questa rabbia il regime della guida suprema Ali Khamenei si è subito mostrato incapace di offrire risposte che non fossero il manganello. Non poteva essere altrimenti, considerando che da tempo l’unica preoccupazione del regime è mantenere il potere, a prescindere dalle conseguenze per la popolazione. Lo dimostra la sua ostinazione nel volersi dotare di un’assicurazione sulla vita come l’arma nucleare, nonostante le sanzioni internazionali che hanno devastato la società iraniana.

La legittimità conferita dalla rivoluzione del 1979, che aveva cacciato un sovrano detestato, è ormai svanita da tempo, così come quella legata al principio religioso del velayat-e faqih, il “governo del saggio”, attualmente incarnato da una guida suprema arrivata al crepuscolo e mai riconosciuta dai suoi pari come un modello a cui ispirarsi. La repubblica islamica, che secondo Reporter senza frontiere è diventata nel giro di poche settimane il terzo paese al mondo con più giornalisti in carcere (dopo la Cina e la Birmania), si regge solo sulla capacità repressiva di un potere la cui spina dorsale è rappresentata dai guardiani della rivoluzione, forti del loro controllo sull’economia e sulla milizia dei basij.

Questo regime fossilizzato non è più neanche capace di presentare una facciata di pluralismo tra “riformatori” e “conservatori”. La grande contestazione contro i presunti brogli alle elezioni presidenziali del 2009 era stata guidata da un esponente dei riformatori, Mir Hossein Moussavi, e rifletteva la convinzione che il sistema potesse essere migliorato. Dodici anni dopo quell’illusione è scomparsa e i manifestanti gridano “morte alla repubblica islamica”.

Seguendo un copione ormai logoro Niloofar Hamedi ed Elaheh Mohammadi, le due giornaliste che avevano pubblicato le prime notizie sulla morte di Amini, sono state accusate di aver agito per conto della Cia. La violenza cieca contro le proteste spontanee durante i funerali, nelle scuole o nel metrò di Teheran viene dallo stesso manuale. L’obiettivo è spingere i manifestanti a reagire per giustificare una repressione ancora più spietata, come dimostrano le prime condanne a morte emesse nei confronti dei contestatori. È una corsa verso il baratro a cui il mondo assiste impotente. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1488 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati