27 febbraio 2016 14:20

Sono uno dei protagonisti di Il caso Spotlight. Il film però non parla di me, ma del potere del giornalismo.

Quasi tutti gli anni cerco di mantenere l’attenzione, o quantomeno di rimanere sveglio, per tutta la cerimonia degli Academy Awards. Non ci riesco quasi mai.

Domenica, però, la stanchezza avrà un fortissimo contrappeso: un chiaro interesse personale. E inoltre sarò seduto all’interno del Dolby Theatre.

Il caso Spotlight porta sul grande schermo i primi sei mesi dell’inchiesta del Boston Globe che nel 2002 ha rivelato l’insabbiamento pluridecennale di una serie di abusi sessuali compiuti all’interno dell’arcidiocesi di Boston.

Liev Schreiber interpreta me stesso nel ruolo di direttore che avvia l’inchiesta, dando di me l’immagine di un personaggio imperturbabile, privo di umorismo e piuttosto arcigno, che molti colleghi riconoscono all’istante (”Sei proprio tu”) e che i miei amici più intimi trovano non del tutto fedele.

Lo scandalo rivelato dalla squadra investigativa Spotlight del Globe ha finito per assumere un’eco mondiale. Quattordici anni dopo, la chiesa cattolica continua a dover rispondere del perché ha nascosto comportamenti così gravi su scala così ampia e dell’adeguatezza delle sue riforme.

Il film è stato candidato a sei Oscar, incluso quello per il miglior film. E, al diavolo l’obiettività giornalistica, spero che li vinca tutti. Mi sento in debito verso tutte le persone che hanno fatto un film che coglie, con grande autenticità, il modo in cui il giornalismo viene praticato e perché è necessario.

I premi prendono la forma di una statuetta, che premia l’eccellenza nel fare cinema. Ma per me le soddisfazioni legate a questo film sono più importanti, e servirà del tempo per valutarle.

Le vere soddisfazioni verranno se il film sarà in grado di avere un vero impatto. Sul giornalismo, se editori e direttori ricominceranno a dedicarsi al giornalismo d’inchiesta. Sui lettori scettici, perché i cittadini saranno spinti a riconoscere la necessità di una seria copertura locale e di forti istituzioni giornalistiche. E su tutti noi, grazie a una maggiore volontà d’ascoltare le persone umili e troppo spesso senza voce, compresi quelli che hanno subìto violenze sessuali e d’altro tipo.

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Al di là del plauso dei critici, Il caso Spotlight ha già ottenuto un risultato lusinghiero. Molti giornalisti, tramite email, tweet e post su Facebook, hanno dichiarato di sentirsi motivati, incoraggiati e rinfrancati. Non è cosa da poco per una professione così malconcia. Siamo stati colpiti dai traumatici effetti di internet, rimproverati praticamente da tutti, in particolare dai politici, durante una stagione di campagna elettorale che ci ha visto cinicamente etichettati come “feccia”.

Un giornalista mi ha scritto che “la storia che ha ispirato il film serve da meraviglioso, davvero meraviglioso, promemoria del perché così tanti di noi hanno scelto questo mestiere, e del perché così tanti hanno continuato a esercitarlo nonostante tutto il pessimismo e tutti i pugni in faccia ricevuti”.

Un giornalista di un importante quotidiano nazionale ha detto d’essere andato a vedere il film con tutta la sua famiglia. “All’improvviso i miei bambini pensano che io sia cool”, ha spiegato.

Le reazioni degli spettatori

Particolarmente rincuorante è stata la reazione di alcuni editori. Uno di loro, in California, ha noleggiato un cinema per far vedere il film a tutti i suoi giornalisti. Un altro mi ha scritto su Facebook: “Tu e la squadra Spotlight… mi avete ridato la carica e spinto a trovare un modello di business che renda possibile un lavoro così importante”.

E più gratificanti di tutte sono state le dimostrazioni di sostegno della gente. “Ho appena visto Il caso Spotlight”, ha scritto uno spettatore su Twitter, “e mi sono ricordato di nuovo gli straordinari risultati che può produrre un giornalismo tenace”.

Un singolo film non cancellerà le pressioni che subisce la mia professione o l’ostilità che così spesso ci troviamo a vivere. Né è questo, in tutta onestà, il motivo per cui insieme a cinque ex colleghi – Walter Robinson, Michael Rezendes, Sacha Pfeiffer, Matt Carrol e Ben Bradlee jr – abbiamo deciso di collaborare alla realizzazione del film. Abbiamo solo pensato che fosse una bella storia, che valesse la pena raccontarla e, insomma, perché non farlo?

Mi ha sorpreso che ci abbiano avvicinato, e all’inizio eravamo diffidenti quando due giovani produttori, Nicole Rocklin e Blye Faust, sono venuti nella redazione del Boston Globe, sette anni fa, per presentare per la prima volta l’idea. Quando hanno opzionato i nostri life rights – che garantivano ai produttori i diritti sulla nostra storia e la nostra collaborazione - dubitavo– del fatto che il film sarebbe stato effettivamente prodotto, malgrado il loro serio impegno. I due anni di silenzio e apparente inattività che sono seguiti sembravano corroborare tali dubbi.

Alla fine, nel 2011, la casa di produzione Anonymous Content si è unita all’avventura, portando con sé l’entusiasmo dei produttori Steve Golin e Michael Sugar. Tom McCarthy è stato arruolato come regista, affiancato dallo sceneggiatore Josh Singer, e così le speranze che il film potesse vedere la luce si sono molto rafforzate.

Tom e Josh componevano una coppia di grande valore. Tom aveva diretto Station Agent, Mosse vincenti e L’ospite inatteso, tutti film che avevano ricevuto un’accoglienza giustamente entusiastica. Josh aveva studiato matematica ed economia a Yale, laureandosi in legge ad Harvard, dove aveva ottenuto anche un Mba, e aveva lavorato come analista finanziario a McKinsey & Co.

E quindi, come è naturale, ha deciso di diventare uno sceneggiatore (scrivendo The West Wing-Tutti gli uomini del presidente e Il quinto potere).

Una scena del film Il caso Spotlight. (Outnow)

In poco tempo, Tom si è messo a lavorare con Josh come co-sceneggiatore e i due hanno cominciato un’indagine sul nostro lavoro come mai ne avevo conosciute. La loro ricerca è stata impressionante, con una serie apparentemente infinita d’interviste con giornalisti, avvocati, vittime e semplici cittadini della comunità di Boston, e esperti del tema degli abusi sessuali sacerdotali. Hanno esplorato l’archivio del Globe, studiando le email che erano state salvate ed esaminando centinaia di documenti del tribunale. E mi hanno fatto raccontare tutto quello che sapevo.

Josh e Tom conoscevano ormai meglio di me quello che era successo al Globe. Leggendo la sceneggiatura, io stesso ho scoperto alcune cose. Ignoravo totalmente le riserve e la riluttanza di alcuni collaboratori all’idea di portare avanti l’inchiesta. Quando sono diventato direttore del Globe, non avevo alcuna fonte in quella redazione.

Nonostante tutto il lavoro svolto, il progetto si annunciava complicato.

C’erano vari motivi per essere pessimisti: 1) la violenza sessuale su bambini e adolescenti è un soggetto difficile per chiunque; 2) il film rischiava di essere offensivo per i cattolici e la loro chiesa; 3) il film si basava unicamente su dialoghi e i personaggi: niente azione né effetti speciali, insomma non certo la formula preferita di Hollywood; 4) in molti provano antipatia per i giornalisti, e i film sul giornalismo hanno spesso faticato a trovare un loro pubblico.

Infine c’era un’ultima ragione, mi sono detto, destinata a essere fatale: i cattolici avevano un nuovo e popolare papa. Come poteva essere il momento giusto per un film che puntava il dito contro le colpe della chiesa cattolica?

Quando è arrivato Mark Ruffalo

Quasi a voler dimostrare che non sapevo niente del mondo del cinema, è stato quello il momento della svolta. Mark Ruffalo, che è candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista per il ruolo di Michael Rezendes, è stato il primo ad accettare di partecipare al film, ritagliandosi del tempo per Il caso Spotlight in un’agenda dove erano già previsti dei film ad alto budget. Il suo entusiasmo per il progetto, stando a quanto ho sentito e letto, è servito ad attrarre altri importanti attori e, alla fine, a garantire i soldi necessari alla produzione.

Dopo anni d’attesa, all’improvviso le cose hanno cominciato a muoversi velocemente. Tom mi ha chiesto se potevo incontrare Liev Schreiber nel pomeriggio del 12 settembre 2014 e poco dopo ho ricevuto un’email dello stesso Liev. Dopo mi ha detto che si aspettava di incontrare una persona non solo riservata ma anche “totalmente imperscrutabile”. Questa è la reputazione che mi circonda.

Ci siamo intrattenuti per poco meno di due ore e, mentre parlavamo, ho avuto la sensazione che non si trattasse esattamente di un’intervista. Era una sessione d’osservazione, molto simile a quella di uno psichiatra. Solo che queste osservazioni non sarebbe rimaste riservate ma sarebbero state rivelate a milioni di persone.

In seguito Tom e io ci siamo scambiati alcune email.

Tom Com’è andata? Impressioni?

Io La vera domanda è: come pensa che sia andata lui?… Ho la sensazione che mi ritenga una persona difficile da capire fino in fondo. Non sarebbe il primo a pensarlo.

Tom Lui pensa che sia andata molto bene. E trova frustrante il fatto di non averti capito del tutto. Ma Liev può essere sempre frustrato. Fa parte del suo fascino.

In seguito Liev mi ha dato una spiegazione diversa. Stava faticando a capire il ruolo.

È stato solo alla prima del film al festival di Toronto, il 14 settembre 2015, nell’immenso Princess of Wales Theatre che ho visto Il caso Spotlight su grande schermo, insieme ad altre duemila persone.

Il film ha provocato forti reazioni. Il Los Angeles Time ha scritto che, passati cinque giorni dall’inizio del festival di Toronto, Il caso Spotlight era “l’unico film ad aver provocato applausi durante la proiezione e dopo, al momento in cui scorrevano i titoli di coda”. Il pubblico ha applaudito anche quando gli attori sono stati chiamati sul palco da Tom. Che poi ha invitato sul palco anche i giornalisti, uno per uno. E lì è successo qualcosa di raro per i giornalisti: abbiamo ricevuto una lunga standing ovation.

È stato un momento di grande emozione. Ho pensato al lavoro di tanto tempo fa, che ha portato al film, e al fatto che ora il suo impatto sarebbe stato amplificato. Ho pensato che ora forse la gente avrebbe capito perché il giornalismo è necessario. E ho pensato alla stranezza di tutta quella scena di cui ero parte, di come un soggetto doloroso come quello degli abusi sessuali avesse stranamente finito per incrociarsi con delle celebrità, i paparazzi e le interviste da tappeto rosso.

Quando la lavorazione del film era quasi finita, Tom mi ha chiesto se ci fosse qualcosa che i giornalisti avrebbero potuto percepire come non autentico. A mio avviso non c’era niente del genere. “Perché?”, gli ho chiesto. “È importante?”.

“Molto”, mi ha risposto.

Gli amici mi hanno difeso

Giornalisti di tutto il mondo hanno ormai visto il film, reagendo allo stesso modo: si tratta di una pellicola straordinariamente precisa nel descrivere il lavoro dei giornalisti e in particolare di quelli investigativi.

Per quanto riguarda invece il mio stesso personaggio, dovrei essere un vero rompiscatole per lamentarmi. La sceneggiatura mi onora, e lo stesso vale per l’interpretazione misurata e sfumata di Liev Schreiber, un attore dal talento eccezionale.

Il film è stato l’occasione di vedere me stesso attraverso gli occhi altrui. All’inizio dell’anno, Sacha ha chiesto a Liev come è riuscito a cogliermi in maniera così precisa, dato il poco tempo passato con una persona “emotivamente così distaccata” e “distante”.

Alcuni miei amici intimi ritengono che nel film non ci sia traccia di alcune delle caratteristiche positive che pure possiedo. Mi ha divertito e ho apprezzato il fatto che una di loro si sia sentita in dovere di difendermi, parlando su Facebook della mia “socievolezza e del mio senso dell’umorismo”, aggiungendo che “il personaggio di Marty sorride a malapena in tutto il film, ma nella vita reale apprezza molto gli scherzi”.

La verità è che quei primi mesi al Boston Globe non sono stati un periodo facile per me. Non c’è dubbio che la cosa emergesse nel mio atteggiamento, tanto che uno dei giornalisti del Globe all’epoca descrisse l’atmosfera durante le riunioni di redazione come “l’infelice ricerca dell’eccellenza”.

Sono arrivato al giornale senza conoscere nessuno, a parte due persone. Non conoscevo nessuno a Boston, a parte una coppia che non avevo visto da anni. Ero stato etichettato come un “estraneo” in città, non un “nuovo arrivato”. E lavoravo con quattro persone, estremamente preparate, che avevano ambìto al ruolo che invece era stato dato a me.

Anche l’attività nel giornale ha conosciuto un’importante svolta, dopo l’inchiesta sulla chiesa cattolica. Sei settimane dopo il mio arrivo c’è stato l’11 settembre, seguito pochi giorni dopo dalla minaccia dell’antrace. Era un periodo teso per tutti, e per me anche solitario.

Fortunatamente le cose sono migliorate. Ho apprezzato moltissimo i miei undici anni e mezzo al Globe, i miei colleghi e gli amici che ho conosciuto a Boston.

Per quanto sia stato realizzato in maniera scrupolosa, è giusto ricordare che Il caso Spotlight è un film e non un documentario. Rispecchia fedelmente le grandi linee dell’inchiesta del Globe. Ma non è un racconto stenografico di ogni conversazione o incontro. La vita non può essere trasposta fedelmente in un film di due ore che deve introdurre personaggi, questioni e temi importanti in maniera coerente.

Per rispondere a una domanda che spesso mi viene rivolta: sì, il cardinale Bernard Law mi ha davvero dato un libro di catechismo mentre ero casa sua. Il libro che si vede nel film è proprio la copia che mi ha dato. Ma la scena nel film è stata un po’ romanzata. Perlopiù la nostra discussione ha girato intorno a un argomento che entrambi sembravamo determinati a evitare, ovvero l’inchiesta del Globe.

A volte mi è stato chiesto se c’è qualcosa che è assente dal film e che avrei voluto vedere. Una delle risposte, devo ammetterlo, è il prodotto della mia stessa rabbia che il passare degli anni non è ancora riuscito a placare.

Mi riferisco a un discorso tenuto il 4 novembre 2002 da Mary Ann Glendon, che insegna diritto a Harvard e che sarebbe poi diventata ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede. “Posso solo dire”, ha affermato di fronte a un gruppo di cattolici, “che se il premio ha qualche cosa a che vedere con l’imparzialità e l’accuratezza, dare il Pulitzer al Boston Globe sarebbe come dare il Nobel per la pace a Osama Bin Laden”.

Un piccolo estratto del discorso avrebbe potuto dire molto sulla cultura della negazione e dell’arroganza che hanno colpito la chiesa prima, e per qualche tempo anche dopo, la nostra inchiesta.

Una lettera sulla scrivania

Il lavoro del Globe si è dimostrato imparziale e preciso. E peraltro tardivo. Nel 2003 ha ottenuto il premio Pulitzer nella categoria di pubblico servizio. Il comitato del Pulitzer ha premiato “la sua copertura esauriente e coraggiosa degli abusi sessuali dei preti, uno sforzo che ha penetrato i segreti, provocando reazioni a livello locale, nazionale e internazionale e spingendo al cambiamento la chiesa cattolica romana”.

Tredici anni fa ho ricevuto una lettera da padre Thomas P.Doyle, che aveva condotto una lunga battaglia, nella chiesa, a favore delle vittime di abusi.

Gli abusi sessuali ai danni di bambini e giovani adulti da parte del clero cattolico e il loro insabbiamento”, mi ha scritto, “sono stati la cosa peggiore capitata alla chiesa in molti secoli. È anche stato il peggior tradimento, da parte degli uomini di chiesa, delle persone che essi sono incaricati di proteggere. I bambini cattolici sono stati traditi, così come i loro genitori e amici. Sono stati traditi i preti e anche i cittadini. Questo incubo sarebbe andato avanti a lungo se non fosse stato per lei e lo staff del Globe.

Da persona che, per molti anni, si è impegnata a fondo per dare giustizia alle vittime e i sopravvissuti, la ringrazio con tutto me stesso. Le assicuro che quello che lei e il Globe avete fatto per le vittime, la chiesa e la società non può essere adeguatamente quantificato. È qualcosa d’epocale e i suoi effetti positivi riecheggeranno per decenni.

Ho conservato la lettera di padre Doyle sulla mia scrivania a Boston fino al giorno in cui, tre anni fa, me ne sono andato per entrare al Washington Post. È servita, durante un periodo molto impegnativo per me e per il Globe, come promemoria di cosa mi ha spinto a diventare giornalista e cosa ha fatto sì che continuassi a esserlo.

Non c’era stato nessun film allora. E nessun premio.

Però c’erano già state delle soddisfazioni. Che dureranno per sempre.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano statunitense The Washington Post.

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