10 ottobre 2016 16:56

Il 6 ottobre i Radicali italiani hanno presentato un rapporto a cura di Roberto Cicciomessere e Vitaliana Curigliano che cerca di chiarire con l’aiuto dei dati quali siano le reali dimensioni del fenomeno migratorio in Italia e negli altri paesi dell’Unione europea e quale sia l’impatto degli immigrati sull’economia. A partire dall’analisi dei dati e dei flussi è emerso che in Italia siamo di fronte a un fenomeno di dimensioni ridotte e in diminuzione, il contrario di come viene spesso presentato dai mezzi d’informazione e da alcuni rappresentanti politici.

Cinque punti del rapporto che smentiscono i luoghi comuni sull’immigrazione in Italia e in Europa.

Non è un’invasione. Su 500 milioni di europei solo il 6,9 per cento è costituito da immigrati: la quota di cittadini stranieri varia dal 45,9 per cento del Lussemburgo allo 0,3 per cento della Polonia. L’Italia con una quota di immigrati dell’8,2 per cento (5 milioni di persone) è allineata agli altri grandi paesi europei come la Germania (9,3 per cento), il Regno Unito (8,4 per cento) e la Francia (6,6 per cento).

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Gli immigrati sono sempre di meno. Secondo il rapporto, è in calo il numero di migranti arrivati in Italia negli ultimi dieci anni, così come il numero di permessi di soggiorno rilasciati ai cittadini di origine straniera per motivi di lavoro. Mentre i mezzi d’informazione parlano di “invasione”, in Italia nel 2014 sono arrivati 248mila migranti, molto meno che in Germania (790mila arrivi) e soprattutto il 51,8 per cento in meno rispetto al 2007, quando erano arrivate 512mila persone. In tutta l’Unione europea, rispetto al 2008, i permessi di soggiorno per lavoro concessi a cittadini di origine extraeuropea sono diminuiti dell’8 per cento, mentre in Italia nello stesso periodo i permessi di soggiorno per ragioni di lavoro sono diminuiti del 62,9 per cento.

Gli immigrati non rubano il lavoro agli italiani. Gli stranieri non riducono l’occupazione degli italiani, ma occupano le posizioni meno qualificate che nel corso degli anni sono state abbandonate dagli italiani, soprattutto nei servizi alla persona, nelle costruzioni e nell’agricoltura, con una funzione di complementarietà in un mercato del lavoro sempre più polarizzato che tende a offrire agli italiani il lavoro più qualificato e meglio retribuito, mentre gli immigrati tendono a essere impiegati nel segmento meno qualificato, dove il lavoro è prevalentemente manuale, più pesante, con remunerazioni modeste e con contratti non stabili. Le mansioni maggiormente diffuse tra le donne immigrate sono quelle di colf, badanti, cameriere, addette alle pulizie di uffici e commesse, mentre tra gli uomini i lavori più diffusi sono quelli di operaio edile, facchino, cameriere e cuoco, bracciante, autista e saldatore. Qualche possibilità di mobilità sociale per le donne è rappresentata dalla professione d’infermiera e di responsabile di piccole aziende, mentre per gli uomini le uniche professioni che presentano la possibilità di una mobilità sociale sono quelle di artigiano e di operaio specializzato. In tutti i paesi europei, e anche in Italia, il tasso di disoccupazione degli immigrati è superiore a quello degli italiani ed è aumentato nel periodo di crisi economica: solo in Germania il tasso di disoccupazione diminuisce per i due gruppi dal 2005 al 2015.

Il lavoro degli immigrati vale l’8,7 per cento del pil. Uno studio del Centro studi di Confindustria ha stimato il contributo del lavoro degli immigrati al prodotto interno lordo (pil) nazionale: dal 1998 al 2007 il pil totale italiano è salito del 14,4 per cento in termini reali (l’1,5 per cento in media all’anno), ma senza gli stranieri sarebbe salito solo dello 0,5 per cento (l’1,1 per cento in media all’anno); nei successivi sette anni di crisi economica (dal 2008 al 2015) il pil è diminuito del 7,3 per cento, ma sarebbe sceso ancora di più, cioè del 10,3 per cento, senza i lavoratori immigrati. Il contributo dei lavoratori stranieri al pil ha raggiunto i 98 miliardi di euro nel 2008, pari al 6,5 per cento del totale, in aumento rispetto al 2,3 per cento del 1998. Questo incremento spiega il 37,4 per cento dell’espansione del reddito prodotto nel paese dal 1998 al 2008. Il peso economico dei lavoratori immigrati ha continuato ad aumentare durante la crisi, superando i 120 miliardi nel 2015.

L’Italia ha bisogno di più di 150mila immigrati all’anno. Considerando il calo demografico dell’Italia e l’aspettativa di vita media nel paese, si prevede che in Italia per mantenere stabile la popolazione in età lavorativa (nella fascia d’età dai 15 ai 64 anni) nel prossimo decennio l’aumento degli immigrati dovrà essere di circa 1,6 milioni di persone (+35,1 per cento), con un flusso d’ingressi annui di 158mila persone nel 2020 e di 132mila nel 2025 (157mila in media ogni anno). Per salvaguardare la forza lavoro indispensabile per garantire la capacità produttiva del paese e per rendere sostenibile il sistema previdenziale, è necessario che arrivino in Italia circa 157mila migranti all’anno per i prossimi dieci anni.

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