09 maggio 2019 10:05

È difficile cogliere appieno le dimensioni delle elezioni politiche indiane. Con quasi novecento milioni di elettori iscritti alle liste e un milione di seggi elettorali, è come se andassero alle urne tutti insieme i paesi dell’Unione europea, gli Stati Uniti, il Canada, il Messico, il Giappone e la Corea del Sud. Eppure questo processo si svolge generalmente senza intoppi.

Stavolta le operazioni di voto sono cominciate l’11 aprile e sono divise in sette fasi, per ridurre il carico di lavoro che incombe sul personale elettorale e sulla polizia. L’uso di quasi quattro milioni di macchine elettorali mobili e alimentate a batteria permetterà il conteggio di tutte le schede in un solo giorno, il 23 maggio.

Il conteggio si svolgerà forse con precisione sinfonica, ma il resto delle operazioni è una vera e propria cacofonia. Con ottomila candidati appartenenti a più di duemila partiti in lizza per i seggi al lok sabha, la camera bassa del parlamento, più che di un’elezione nazionale si tratta di 543 battaglie autonome. Le regole sulle spese elettorali sono vaghe e spesso violate, e le stime sui costi della sfida elettorale di quest’anno arrivano anche a dieci miliardi di dollari.

Vincono i più ricchi
Da metà marzo la commissione elettorale ha sequestrato circa mezzo miliardo di dollari in contanti, oro, droga e alcol ritenendo che sarebbero stati usati per corrompere gli elettori.

Gli altissimi costi d’iscrizione alle liste elettorali avvantaggiano i candidati di alto profilo o dotati di grandi mezzi. Non sorprende che molti siano ex stelle del cinema o dello sport, malviventi, miliardari o discendenti di grandi dinastie. Le spese dei candidati alimentano le speranze degli elettori poveri: in uno stato del sud gli abitanti di un villaggio hanno recentemente preso d’assalto l’ufficio di un partito, infuriati contro un intermediario che, avendo “venduto” i loro voti, aveva pagato per ciascuno di essi solo cinquecento rupie (sette dollari) contro i duemila che lui aveva intascato dal candidato.

Costi così elevati contribuiscono probabilmente anche ad aumentare la tensione: nelle ultime settimane alcuni candidati si sono lanciati a vicenda varie accuse di furto, tradimento, intolleranza, sostegno al terrorismo e altri misfatti.

Al di là delle dimensioni e dell’intensità, queste elezioni sono cariche di suspence. Il sistema elettorale maggioritario indiano permette di ottenere un seggio anche con molto meno di metà dei voti, ammesso che gli altri candidati ne ottengano meno del più votato.

Scottature e alleanze
Cinque anni fa il partito al potere, il Bharatiya janata party (Bjp), aveva ottenuto, con il 31 per cento dei voti, il 52 per cento dei seggi, mentre il suo grande rivale, il Congress, aveva portato a casa un magro 8 per cento dei seggi nonostante il 19 per cento dei voti. Sono inoltre possibili cambiamenti repentini: alle ultime elezioni nell’Uttar Pradesh, lo stato più popoloso del paese, se avessero unito le forze, il Bahujan samaj party (Bsp) e il Samajwadi party (Sp), i due principali rivali del Bjp, avrebbero ridotto il numero di seggi totali di quest’ultimo quasi della metà, privandolo della maggioranza. Scottati, i due partiti, che rappresentano due diverse correnti delle caste più basse, oggi sono alleati.

Se si eccettuano gli astrologi, gli indiani tendono comprensibilmente a diffidare delle previsioni. Nelle ultime tre elezioni politiche, i sondaggi professionali si sono dimostrati piuttosto imprecisi. Eppure c’è un consenso sull’esito più generale della contesa. Nessuno crede che per il primo ministro Narendra Modi gli astri saranno benevoli come nel 2014, quando il Bjp ha ottenuto da solo 282 seggi.

Dato il vantaggio di cui gode, una vittoria di Modi è ampiamente attesa

Tutti si aspettano che il Congress, l’unico altro partito rivale di portata nazionale, aumenti i suoi seggi rispetto agli attuali 44, rimanendo comunque di gran lunga il secondo partito dietro al Bjp. La maggior parte delle persone crede che i partiti regionali, inclusi Bsp e Sp, otterranno circa un terzo dei seggi.

Dato il vantaggio di cui gode, una vittoria di Modi è ampiamente attesa. Il primo ministro è un talentuoso e instancabile animale da campagna elettorale, capace di lanciare implacabili ed efficaci messaggi ai suoi sostenitori, alternandoli a feroci attacchi ai rivali.

Un altro aiuto lo forniscono le forti entrate di denaro, come quelle derivanti dalle donazioni effettuate tramite “azioni elettorali”. Da quando, lo scorso anno, il Bjp ha creato questo strumento di donazioni politiche anonime in nome della “trasparenza”, circa il 95 per cento di queste donazioni è andato al partito al potere.

Anche essere al potere aiuta. Con l’avvicinarsi delle elezioni, i rivali di Modi si sono trovati vittime di controlli fiscali o perquisizioni della polizia. In piene elezioni il ministro dell’interno ha improvvisamente deciso di rispondere a un’interpellanza pubblica, risalente al 2015, che metteva in dubbio la cittadinanza di Raul Gandhi, la cui famiglia è stata fondatrice e a capo del Congress per cinque generazioni, e di tutta l’India per buona parte del tempo dopo la sua indipendenza.

Nel frattempo un programma governativo volto a compensare i piccoli agricoltori, introdotto a febbraio, ha miracolosamente versato denaro nei conti di questi ultimi in tempo per il voto. A dire la verità, altri partiti sono stati altrettanto sfacciati: il Bengala Occidentale, guidato dal partito All India Trinamool congress, una formazione fieramente opposta al Bjp, ha impedito ai dirigenti del partito rivale di far atterrare i loro elicotteri sul “proprio” territorio.

La campagna nazionalistica
Nonostante disponga di tutte queste carte, all’inizio di quest’anno Modi sembrava più vulnerabile. A dicembre il Congress aveva riguadagnato terreno dopo aver scalzato il Bjp nel corso di tre elezioni statali nell’India centrale. Modi era affaticato e cresceva la rabbia di gruppi importanti come agricoltori, piccoli commercianti, minoranze e classe media più istruita. I mezzi d’informazione fedeli al governo si mostravano meno servili. Si parlava di un’alleanza tra i partiti d’opposizione, sotto la guida di Gandhi, che avrebbe tentato in tutti i modi di sconfiggere il Bjp.

Ma poi la situazione è cambiata di nuovo, stavolta a favore di Modi. Il 14 febbraio un giovane di vent’anni, Adil Ahmad Dar, ha lanciato la sua auto imbottita di esplosivo contro un convoglio della polizia paramilitare nel territorio conteso del Jammu e Kashmir, uccidendo quaranta agenti. L’attentato, rivendicato da un gruppo terroristico pachistano, ha scatenato un’ondata di commozione nazionalistica che ha raggiunto il suo apice due settimane dopo, quando Modi ha ordinato un bombardamento di rappresaglia contro una presunta base terroristica nell’entroterra del Pakistan.

Modi ha instancabilmente alimentato i sentimenti nazionalisti, minacciando una pioggia di missili contro il nemico nel corso di una “notte di morte”, e deridendo i suoi avversari politici definendoli disfattisti privi di coraggio. Anche se molti indiani, soprattutto quelli che vivono al confine con il Pakistan, considerano più importanti le questioni locali, questa inarrestabile retorica ha confuso l’opposizione, che invece di compattarsi si è divisa.

Anche se il Bjp e i suoi più stretti alleati non riusciranno a ottenere una maggioranza, saranno quasi sicuramente in una posizione migliore rispetto a Gandhi per convincere una parte di partiti regionali a formare una coalizione. “Se queste elezioni riguardassero le questioni fondamentali, Modi e il Bjp sarebbero nei pasticci”, sostiene Milan Vaishnav del centro studi Carnegie endowment for international peace. “Ma data la popolarità di Modi, la questione della sicurezza e le debolezze dell’opposizione, mi sembra che il Bjp sia riuscito a volgere la situazione in suo favore”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it