23 settembre 2020 16:28

Per trent’anni Joseph Mitchell fece la stessa cosa, ogni giorno. Andava nella redazione del giornale dove lavorava, il New Yorker, si sedeva nel suo ufficio, prendeva la macchina da scrivere e provava a buttare giù un articolo. Era al New Yorker dal 1938 ed era considerato uno dei più bravi giornalisti degli Stati Uniti, in grado di raccontare la città come nessun altro. Aveva pubblicato reportage e ritratti di persone comuni che grazie alla sua penna erano diventate simboli della Grande mela. Eppure non riusciva a finire un articolo dal 1964. Stava perfino lavorando a un libro, un’autobiografia, ma anche quella era rimasta in sospeso. La sola idea di scrivere gli pesava, schiacciato com’era da quello che definiva un “oscuro e vacuo isolamento”. Aveva il blocco dello scrittore. Morì nel 1996 senza aver finito nessuno degli articoli e dei libri ai quali stava lavorando.

Se fai un lavoro creativo, l’incapacità di produrre cose che ti soddisfino è la cosa peggiore che ti può succedere. “Come il pellegrino di John Bunyan, avevo smarrito la retta via”, ha scritto Stephen King nel saggio On writing, ricordando la difficile gestazione dell’Ombra dello scorpione, uno dei suoi romanzi più di successo.

Anche Thom Yorke, leader dei Radiohead, doveva sentirsi più o meno così nel 1998. La sua band aveva finito da poco il tour mondiale di Ok computer, un disco che la critica aveva definito un capolavoro e che fino a quel momento aveva venduto più di quattro milioni di copie. Secondo tutti i Radiohead erano i campioni del rock globale, “i nuovi Pink Floyd”. Qualcosa però a Yorke non tornava. Tutte quelle attenzioni, tutta l’attesa attorno alle sue prossime mosse e a quelle del gruppo, lo schiacciavano. Ogni volta che prendeva in mano la chitarra per scrivere delle nuove canzoni gli venivano gli incubi. Suonava un po’, scriveva qualche accordo e poi chiudeva gli appunti dentro un cassetto. Poi li tirava fuori, li riguardava e li distruggeva. Il suo blocco dello scrittore andava avanti da parecchi mesi e niente sembrava in grado di sbloccarlo. Anche lui, probabilmente, sentiva lo stesso “vacuo isolamento” di cui parlava Joseph Mitchell. Poi, però, qualcosa cambiò.

Chi ascoltò Kid A nell’ottobre del 2000 all’inizio rimase spiazzato, se non disorientato

Una delle cose più affascinanti di Kid A, il disco dei Radiohead che il 2 ottobre festeggerà vent’anni, è proprio questa. Kid A è figlio di una crisi profonda, personale e creativa. La sua gestazione fece quasi a pezzi i Radiohead. E fu il frutto dell’alienazione di un artista, Thom Yorke, che aveva raggiunto il successo ma rifiutava tutti i codici comportamentali dello star system. Si alimentò anche della tensione politica che montava in quegli anni, la stessa alla base del movimento No global. Del resto durante le registrazioni i Radiohead lessero più volte il saggio No logo di Naomi Klein, e per un certo periodo pensarono perfino d’intitolare il disco No logo. Inoltre, Kid A sembrava intercettare anche la preoccupazione per una crisi climatica che tanti preferivano ignorare: le cupe montagne ritratte da Stanley Donwood sulla copertina dell’album furono ispirate dai dati già allora allarmanti sullo scioglimento dei ghiacciai.

A cominciare dal grande rifiuto dello star system e dalla ribellione politica, Yorke e gli altri componenti del gruppo, a partire dal chitarrista e arrangiatore Jonny Greenwood, trovarono le energie per azzerare il loro stile e creare un nuovo orizzonte sonoro. Un po’ come i Beatles, che a un certo punto decisero di abbandonare i tour ed esplorare le infinite possibilità dello studio di registrazione. Un po’ come Miles Davis, che si divertì a far arrabbiare i puristi del jazz contaminando la sua musica con il rock e il funk in Bitches brew. Imparando la lezione dai più grandi, i Radiohead decisero di far saltare il banco nel loro momento di maggior successo commerciale. Del resto, come insegna Brian Eno, “whatever worked last time, never do it again”: qualsiasi cosa abbia funzionato in passato, non la rifare.

Chi ascoltò Kid A nell’ottobre del 2000 all’inizio rimase spiazzato, se non disorientato. Alcuni lo odiarono subito e lo odiano ancora oggi, considerandolo un lavoro pretenzioso e autoreferenziale che tradiva l’estetica del rock. Altri l’hanno rivalutato con il tempo. Certi lo amarono subito, come il cantautore Iosonouncane.

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Quattro studi, quindici mesi
I Radiohead sono sempre stati lenti a fare i dischi. Nella prima parte della loro carriera registrare fu un processo faticoso, a tratti traumatico. The bends, arrivato dopo il successo planetario del singolo Creep, doveva essere pronto in poche settimane e invece richiese mesi. Per Ok computer la band cambiò diversi studi di registrazione alla ricerca del suono giusto prima di approdare al maniero di St. Catherine’s Court, nel Somerset, dove completarono la maggior parte dei brani. Ma, se confrontati a Kid A, quei due album furono una passeggiata.

La storia di Kid A, come racconta il libro di Trevor Baker Thom Yorke. Radiohead & trading solo, comincia nello studio Guillaume Tell di Parigi nel gennaio del 1999. I cinque musicisti si ritrovano per l’inizio delle session insieme al produttore Nigel Godrich. Non ci sono scadenze. Nessuno ha idea di cosa fare, a partire da Thom Yorke, da sempre guida creativa del gruppo, che di solito si presenta in studio con dei demo voce e chitarra già pronti. Yorke, che ancora non si è scrollato di dosso il blocco dello scrittore, è molto incerto sulla direzione da prendere ma ha un desiderio: vuole fare qualcosa di elettronico. Non tutti sono d’accordo. Il bassista Colin Greenwood e il chitarrista Ed O’Brien vorrebbero tornare a uno stile ancora più semplice e orecchiabile rispetto a quello di Ok computer.

Yorke si oppone, perché in quel momento ci sono due cose che proprio non sopporta: le chitarre e la sua voce. È stufo dell’intensità emotiva che ha fatto le fortune della band, gli sembra di essersi trasformato in un cantante smielato. I suoi punti di riferimento sono altri, come gli Autechre o Aphex Twin. E non vuole scrivere testi come faceva prima. I demo che ha portato in studio stavolta sono solo campionamenti, strani rumori e frammenti sonori. Piuttosto difficile, viste queste premesse, suonare insieme e fare un nuovo Ok computer come tutti si aspettano. Dopo un mese a Parigi, la band getta la spugna e abbandona lo studio. L’atmosfera è tesa.

A marzo il gruppo si sposta al Medley studio di Copenaghen, ma le session durano solo due settimane e finiscono ancora peggio. Così ad aprile i sei tornano nel Regno Unito, al Batsford park, nel Gloucestershire. Hanno accumulato più di sessanta canzoni inedite e incomplete. Non hanno idea di come proseguire. Sono in crisi, ma c’è una persona che se la sta godendo: Jonny Greenwood, 28 anni, il più giovane della band. Dopo Ok computer è stato celebrato come uno dei più grandi chitarristi della storia del rock, anche grazie al suo stile molto originale, ma si sente un po’ ingabbiato in questo ruolo.

I Radiohead cominciano a scambiarsi gli strumenti: Yorke si compra un piano, anche se lo sa suonare a malapena. Greenwood comincia a smanettare con le onde Martenot, una tastiera analogica antenata dei sintetizzatori usata dal compositore francese Olivier Messiaen. E poi usa i campionatori, le drum machine e s’interessa alle partiture per archi. L’atmosfera comincia a farsi più rilassata. Nel giugno del 1999 sul suo blog Ed O’Brien parla di una “fantastica session”. A settembre la band si sposta in uno studio costruito apposta nell’Oxfordshire, vicino a casa, un ex fienile in mezzo alla campagna. E da qui le cose decollano: Yorke distorce la sua voce con vecchi sintetizzatori e trova un modo per scrivere i testi, con la tecnica del cut-up, presa in prestito da scrittori come William S. Burroughs e da Michael Stipe, il cantante dei R.E.M. Il blocco dello scrittore sembra alle spalle.

In quello studio il gruppo finisce sei canzoni, e alla fine dell’anno va in tour per testare i nuovi brani dal vivo, suonando dentro un tendone. Il pubblico li accoglie bene.

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Infine, i Radiohead tornano in studio per ultimare il lavoro. Il 19 aprile 2000 Thom Yorke scrive un post sul sito ufficiale della band: il nuovo disco è finito e s’intitolerà Kid A. Le session di registrazione hanno prodotto in tutto più di quaranta pezzi. Venti di questi saranno pubblicati in due album a distanza di otto mesi: Kid A uscirà il 2 ottobre 2000, Amnesiac il 5 giugno del 2001. I brani scartati hanno alimentato il repertorio della band fino ai giorni nostri. C’è un pezzo, intitolato Kinetic, che viene scartato proprio all’ultimo secondo dalla scaletta e finirà come b-side del singolo Pyramid song.

I Radiohead inoltre comunicano alla loro casa discografica, le Emi, che per promuovere Kid A non faranno uscire né singoli né videoclip e che le interviste saranno pochissime. L’unico strumento promozionale, oltre ai passaggi in radio, saranno i “blips”, degli inquietanti cortometraggi animati che vengono distribuiti a Mtv e alle altre tv musicali e che riprendono l’estetica del libretto del cd. I tempi della sovraesposizione mediatica sono molto lontani, come spiega Gianpietro Giachery, che al tempo era international marketing manager della Emi in Italia.

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In quegli anni internet sta cambiando in modo traumatico la discografia, e anche Kid A è travolto da quella rivoluzione: diversi brani registrati dai fan durante la tournée europea circolano sui siti di file sharing, e il disco intero finisce su Napster molto prima dell’uscita. Ma questo non gli impedisce di debuttare al primo posto della classifica britannica e anche di quella statunitense, un fatto abbastanza clamoroso.

Perfino la stampa specializzata rimane spiazzata quando si presenta all’anteprima, come racconta il giornalista di Repubblica Gianni Santoro, che all’epoca era freelance.

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Addio al rock
Il sintetizzatore Prophet-5 che apre Everything in its right place, il primo brano dell’album, suona un pugno di note semplici, quasi infantili. Il rock sofisticato dei Radiohead è diventato all’improvviso qualcos’altro. Nessuna chitarra, una voce quasi irriconoscibile, filtrata e campionata, ripete più volte “Kid A”.

Ma chi è il “Bambino A”? Secondo la critica del tempo è il primo neonato clonato della storia, ma i Radiohead sono sempre stati ambigui sulla questione, e in generale hanno preferito non spiegare mai in modo dettagliato i testi del disco. Le parole cantate da Yorke viaggiano in territori astratti (“Yesterday I woke up sucking a lemon”, “There are two colours in my head”), ma evidentemente hanno molto a che fare con la depressione e la nevrosi del cantante. Il pezzo successivo, che s’intitola proprio Kid A, è ancora più strano, con i suoi sintetizzatori ambient e quel finale etereo che allude alla fiaba del pifferaio di Hamelin.

In seguito l’atmosfera cambia improvvisamente e irrompe il riff di basso distorto di The national anthem, un brano ossessivo con un testo apocalittico. Il crescendo finale, con quei fiati che suonano come dei clacson, prende ispirazione dal disco Town hall concert di Charles Mingus, ed è suonato da un gruppo di sessionmen che eseguono partiture scritte dai Radiohead. In studio Greenwood e Yorke fanno i direttori d’orchestra e Yorke si agita così tanto che mentre li dirige si rompe quasi un piede. Poi, a terminare una sequenza incredibile, arriva How to disappear completely, una ballata cupa che parla ancora di ansia e depressione. Yorke l’ha scritta dopo aver sognato che vagava per Dublino come un fantasma e volteggiava sopra il fiume Liffey. L’arrangiamento orchestrale costruito da Jonny Greenwood, che proprio in quel periodo sta scoprendo la sua vocazione da compositore, è il controcanto ideale per la voce di Yorke.

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La strumentale Treefingers è la cesura tra la prima e la seconda parte, nella quale ci sono altri due brani memorabili: Idioteque e Motion picture soundtrack. Il primo nasce da un campionamento di cinquanta minuti creato da Jonny Greenwood a partire da Mild und leise, una composizione di computer music firmata da Paul Lansky, sul quale Yorke ha costruito la canzone e la linea vocale. In Idioteque ci sono due temi ricorrenti nella discografia della band: la paura della tecnologia e quella degli eventi catastrofici, che siano un olocausto nucleare o il riscaldamento globale. Idioteque, con quelle percussioni elettroniche nervose, è così bella da diventare una canzone simbolo, che probabilmente saprà parlarci anche fra cent’anni, come A hard rain’s a-gonna fall di Bob Dylan. Il protagonista del brano, che si chiude dentro un bunker e dice che “riderà finché non gli cadrà la testa” fa venire in mente anche il Jack Gladney del romanzo Rumore bianco alle prese con la nuvola tossica.

Optimistic è la cosa più vicina al rock che si può trovare in Kid A e infatti suona quasi fuori posto, mentre il finale di Motion picture soundtrack, seppur immerso in una malinconia profonda, diventa catartico grazie all’arpa e al coro angelico che avvolgono il verso finale: “I will see you in the next life”, ci vedremo nella prossima vita. Anche qui, si parla di depressione. Ma come spesso capita con i Radiohead, alla fine del brano si ha l’impressione di essersi scrollati di dosso le angosce, di esserne usciti rigenerati.

L’eredità
Alcuni musicisti, come il compositore Teho Teardo, al tempo rimangono spiazzati da Kid A. “E adesso cosa faccio?”, si chiede dopo aver ascoltato il disco.

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E in effetti Kid A, perlomeno in quel momento, è un disco del quale è difficile non restare sorpresi. Se The bends e Ok computer hanno creato orde di emuli (come i primi Muse) e imitatori, Kid A è fin da subito un disco impossibile da scimmiottare. È un album che nasce dalla fatica di comunicare con gli altri e mette questa difficoltà in musica, sublimandola in arte. Come spiega la scrittrice Claudia Durastanti, è un disco di un autore “nauseato dalla trama”.

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Kid A non è stato sicuramente il primo album a mescolare chitarre ed elettronica, ma la sua influenza sul decennio successivo è stata enorme, perché ci ha fatto capire improvvisamente che il rock era un genere del novecento, destinato a ripetere se stesso e a diventare retroguardia, come il blues. All’epoca molti non l’avevano ancora capito (tanti non lo capiscono neanche oggi), tant’è vero che un anno dopo Is this it degli Strokes ha rimesso in moto la musica con le chitarre e dato il via all’ultimo vero revival del genere.

Ma al tempo stesso, riascoltandolo oggi a distanza di vent’anni, si capisce che Kid A, al netto dei testi apocalittici e delle sonorità cupe, è un disco pop. E sintetizza meglio di ogni altro quello che distingue i Radiohead da tanti contemporanei: la capacità di fare musica sperimentale e al tempo stesso godibile, perfino orecchiabile. Basta vedere come in questi anni il pubblico dei concerti reagisce a brani come Idioteque ed Everything in its right place. Le sanno a memoria, le ballano e le cantano, perché sono brani pop. E questo non è un difetto, anzi.

Kid A è probabilmente il miglior disco dei Radiohead, anche più di Ok computer, e resterà probabilmente il loro più grande testamento artistico. Ancora oggi ha tante cose da dire, anzi forse abbiamo più strumenti per capirlo rispetto al 2000. Sono passati vent’anni e tutto è finalmente al suo posto.

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