Quando suo figlio adulto si è ammalato, Ruffina Pompei si è comportata come ha sempre fatto, portandogli in camera il minestrone e la spremuta d’arancia. Questa volta, però, si è messa a dormire su una poltrona fuori dalla sua stanza e a cambiargli i vestiti regolarmente. Inoltre ha detto al marito di 89 anni di stare alla larga. Ma alla fine il virus si è diffuso nell’appartamento. Il 29 marzo il figlio di Ruffina è morto in un ospedale abruzzese. Suo marito è morto il giorno dopo nello stesso ospedale. Anche a Ruffina, 82 anni, è stato diagnosticato il covid-19. “Non potevo lasciarlo solo”, dice parlando del figlio.

Gli italiani sono stati i primi in occidente a ricevere l’ordine di restare a casa, e l’hanno rispettato. “Io resto a casa” è diventato un hashtag, il nome di un decreto e uno slogan scritto sui lenzuoli appesi ai balconi e alle finestre. L’isolamento domiciliare ha funzionato, favorendo la riduzione dei contagi e dei decessi oltre a evitare il collasso degli ospedali, ma la casa è diventata un posto pericoloso per molti italiani.

Le famiglie italiane sono tra i più grandi bacini di infezioni, spiega Massimo Galli, responsabile del reparto malattie infettive dell’ospedale universitario Luigi Sacco di Milano. Secondo Galli questi contagi potrebbero essere “il possibile punto di ripartenza dell’epidemia dopo la riapertura”. Il virologo Andrea Crisanti, referente scientifico della regione Veneto sul nuovo coronavirus, spiega che la famiglia agisce come un moltiplicatore. “È una bomba a orologeria”, avverte.

Il problema dei contagi domestici non riguarda solo l’Italia, ma si ripresenta ai quattro angoli del pianeta, da New York alle periferie di Parigi passando per i quartieri popolari di Milano e Roma. Secondo le autorità locali e gli epidemiologi italiani quest’aspetto è pericolosamente trascurato, proprio mentre il governo italiano ha annunciato il piano per la riapertura a partire dall’inizio di maggio.

I principali virologi italiani sono convinti che i nuclei familiari, insieme alle case di riposo, rappresentino fonti di contagio particolarmente difficili da arginare. Paradossalmente la convivenza in spazi ristretti e l’impossibilità di trasportare i contagiati in strutture dedicate hanno sostenuto quella stessa curva dei contagi che la campagna “restiamo a casa” voleva abbattere. In Cina il problema è stato affrontato in modo radicale. A Wuhan tutti i contagiati sono stati isolati in strutture dedicate alla quarantena, spesso senza un’assistenza adeguata. Questa decisione potrebbe essere servita a contenere il contagio, ma nelle democrazie occidentali l’idea di strappare le persone alle proprie case è inaccettabile. Soprattutto in Italia, dove i legami familiari sono particolarmente forti.

Il male minore
L’Italia, come le altre democrazie occidentali, ha dovuto cercare un equilibro tra la lotta contro il virus e le conseguenze economiche, sociali e politiche di un isolamento delle persone senza sintomi gravi dai propri familiari. Il governo non ha ritenuto una priorità allontanare i malati dalle loro case.

“Come medico consiglierei di mandare i carri armati nelle strade e imporre lo stato di polizia”, dichiara Guido Marinoni, presidente dell’ordine dei medici di Bergamo. “Ma la realtà nel mondo occidentale è diversa”. L’Italia non ha adottato, né delineato, un piano nazionale per evitare che gli infettati potessero contagiare i conviventi. In sostanza ha accettato la possibilità di una tragedia controllata all’interno delle case e concentrato i propri sforzi per scongiurare la diffusione inarrestabile del virus nella società.

“Il contagio domestico è il male minore”, dice Giorgio Palù, ex professore di virologia e microbiologia dell’Università di Padova ed ex presidente delle società europea e italiana di virologia. È meglio mantenere il virus all’interno delle famiglie che lasciarlo circolare in modo incontrollato. “In casa è bloccato”, precisa.

Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, riconosce che le case sono “luoghi ad alto rischio” e il 24 aprile ha mostrato come i contagi domestici rappresentino ormai il 25 per cento dei nuovi casi. L’importante è che queste infezioni “non si diffondano oltre”.

Tutto questo, però, non lenisce il dolore delle famiglie decimate dal virus, come le sorelle di Bergamo contagiate dal covid-19 che hanno vissuto prima la morte del padre e poi il ricovero del nonno, o la parrucchiera campana che ha perso i genitori, o ancora il metalmeccanico di Voghera morto pochi giorni dopo i suoi due figli.

Secondo gli esperti in questo momento le case italiane potrebbero ospitare più di un milione di malati di covid-19. Questo spiega perché si continuano a registrare nuovi casi. Nonostante un calo dei contagi e dei decessi a livello nazionale, nella settimana dal 20 al 26 aprile la Lombardia, epicentro dell’epidemia in Italia, ha registrato cinquemila nuovi positivi e quasi novecento decessi. Alcuni responsabili della sanità pubblica ammettono che il numero reale delle persone infette potrebbe essere dieci volte superiore.

Federico Ricci-Tersenghi, fisico teorico dell’università La Sapienza di Roma ed esperto di modelli matematici, è convinto che per arginare il contagio sarebbero state necessarie strutture per isolare i malati, come in Cina. “Restare in casa non è la soluzione né dal punto di vista economico né da quello sanitario. Riaprire tutto senza le strutture adatte è molto rischioso. È probabile che l’epidemia riprenda il suo corso”.

In molti casi solo le persone positive al nuovo coronavirus possono occupare le camere d’albergo

A marzo alcuni medici cinesi in visita in Italia hanno sottolineato l’importanza di predisporre prefabbricati con molti posti letto per isolare tutti i positivi. “Ci hanno spiegato che è fondamentale separare i contagiati dal resto della famiglia”, ricorda Giampietro Rupolo, presidente della Croce rossa di Padova, tra le persone che hanno incontrato i medici cinesi. “Altrimenti è difficile contenere l’epidemia”. A quanto pare le autorità italiane hanno stabilito che trasferire i malati in strutture apposite non è fattibile.

Secondo Giovanni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, il governo non ha pensato che uno sforzo centralizzato fosse “fattibile, possibile né apprezzabile”.

I mezzi d’informazione italiani riferiscono che il governo sta pensando di subordinare la fine delle misure di restrizione nelle varie regioni alla disponibilità di strutture dedicate all’isolamento dei malati in quelle regioni. Gli esperti hanno sottolineato più volte l’importanza del tracciamento dei contatti e della diagnosi precoce perché il contagio può avvenire quando il paziente non manifesta ancora i primi sintomi della malattia.

Finora il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha sostanzialmente evitato di affrontare il tema dei contagi domestici. Un decreto di metà marzo permetteva alle autorità locali di confiscare gli alberghi per ospitare i pazienti che non possono isolarsi in casa. Tuttavia, com’è successo con molti provvedimenti adottati dal governo, anche questo decreto è stato interpretato e applicato in modo diverso nelle varie aree del paese.

In molti casi solo le persone con una diagnosi confermata dal tampone possono occupare le camere d’albergo, che tra l’altro non sono disponibili su tutto il territorio. Lo stesso vale per i tamponi, che nelle regioni più colpite vengono effettuati solo sui pazienti ricoverati in ospedale.

Le autorità della regione Toscana hanno invitato i pazienti dimessi dagli ospedali con sintomi lievi a isolarsi in hotel, ma non possono imporlo. A metà aprile solo duecento persone avevano occupato le strutture alberghiere, mentre molti altri avevano preferito firmare un documento con cui s’impegnavano ad autoisolarsi in casa. A Milano l’hotel Michelangelo, che ospita i positivi al covid-19, non ha mai raggiunto la capienza massima. A Bergamo, la città più colpita del paese, le camere d’hotel disponibili sono solo quattrocento, mentre secondo l’ordine dei medici della città i contagiati sarebbero circa 65mila.

Il dolore delle famiglie
Gli italiani delle classi più povere sono quelli che devono affrontare le scelte più difficili. In Calabria, Paolina Mazza, 63 anni, malata di covid-19, si è autoisolata in casa dopo il ricovero del marito. Mazza accusa le autorità di non averle concesso alternative e di averla costretta a tornare a casa, dove cerca di stare lontana dal figlio di 39 anni. “Non abbiamo una seconda casa per isolarci. Mia madre e mio fratello dividono un appartamento molto piccolo”, spiega Daniela, figlia di Paolina. “Viviamo nel terrore”.

Alcuni medici pensano che per loro sia inevitabile contagiare i propri familiari. Federica Brena, 35 anni, è un medico che lavora nel reparto covid-19 dell’ospedale bergamasco Humanitas Gavazzeni. Ha manifestato i sintomi della malattia e ha prontamente deciso di isolarsi in casa, dove vivono anche il marito e il figlio di un anno. “La soluzione ideale sarebbe stata non tornare mai a casa. Era ovvio che avrei contagiato mio marito e mio figlio”. Presto il bambino ha cominciato ad avere la febbre alta e a tossire. Pochi giorni dopo è toccato al marito, che ha avuto la febbre per dodici giorni. “Vivere in casa con altri è difficile, anche se cerchi di isolarti”, sottolinea Brena, precisando che le condizioni dei suoi familiari stanno migliorando. “Soprattutto se non vivi in una villa spaziosa”. La decisione di isolarsi dagli altri è particolarmente complicata per gli anziani, che spesso hanno bisogno di assistenza.

Alla fine di febbraio nel comune lombardo di Fombio, vicino a uno dei primi focolai di covid-19, Emanuele Visigalli e suo fratello si sono presi cura della madre di 79 anni, che aveva cominciato ad avere la tosse e la febbre alta. Visigalli ha provato a farla ricoverare, ma quando ha chiamato il numero dedicato all’emergenza gli è stato detto che era meglio se la madre rimaneva isolata in casa. Per Visigalli l’idea di abbandonare i genitori era inaccettabile. La prima ambulanza è arrivata per prelevare la madre. Poi ne è arrivata una per il padre, di 81 anni. Alla fine sono venuti a prendere anche lui. I suoi genitori sono morti in ospedale, mentre lui è stato dimesso dopo che le sue condizioni erano migliorate. Tornato a casa, non ha abbracciato i figli né baciato la moglie. Dorme in una camera separata, che la moglie disinfetta ogni giorno.

“La sera, a tavola, mi siedo lontano dagli altri”, racconta. Guardando fuori dalla sua finestra, si sente turbato dalle persone che camminano per strada. “Perché non stanno a casa?”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Quest’articolo è uscito sul New York Times.

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