14 luglio 2016 13:31

Una mia amica è una giornalista che dedica la maggior parte del suo tempo a raccontare storie di migranti. Mi piacciono i suoi articoli. Leggerli mi offre la rara e bellissima opportunità di ascoltare delle persone senza interruzioni, e di ascoltare la loro voce nella mia testa, vedendo le cose dal loro punto di vista. Nel periodo in cui la mia amica si trovava in Libia, quando discutevamo delle motivazioni di chi sceglie di tentare la sorte in un viaggio della morte, lei a volte diceva che la disperazione è una motivazione fortissima: le persone partono perché non hanno altra scelta. Io sostenevo il contrario: secondo me a compiere questo salto della fede non sono persone completamente disperate che hanno perso ogni fiducia.

Le cose non sono bianche o nere, hanno sempre delle sfumature. Non so se sostenevo questa posizione perché ci credessi o soltanto per divertirmi a provocarla. Adoro fare una bella conversazione e lei era bravissima ad argomentare. Ora che ha lasciato la Libia, non posso fare altro che continuare a leggere i suoi articoli e mandarle dei messaggi di tanto in tanto. Discuto tra me e me, ma non è bello come quando ne parlavamo insieme.

Da spettatori vediamo le foto dei gommoni che partono per un viaggio in cui è in gioco la vita o la morte mentre sorseggiamo il caffè, ne discutiamo e facciamo analisi, e tutti hanno una teoria per spiegare il fenomeno.

Cosa fa sì che un padre o una madre decidano di mettere il proprio figlio su una barca?

Cosa fa sì che un padre o una madre decidano di mettere il proprio figlio su una barca? Quale stato d’animo può portare a una simile decisione? Ci penso. Io non sono un padre, ma amo profondamente la mia famiglia. Guardo il mio nipotino e la mia nipotina e penso a cosa non sarei disposto a fare per proteggerli. E nel profondo del cuore so che l’amore dei genitori è più divino e infinito rispetto al mio amore, al di là di qualsiasi paragone.

Lo capisco quando guardo mia madre, questa grande donna che mi ha amato in modo così forte, incondizionato, che non ha mai smesso di credere in me. Perfino quando ero più giovane e neppure io mi sarei amato, lei mi amava lo stesso.

Di nuovo, cosa fa sì che un padre o una madre decidano di mettere il proprio figlio su una barca? È un atto di disperazione o un tentativo di restare aggrappati a un’ultima speranza? È un atto di crudeltà ed egoismo, oppure di misericordia e abnegazione? È una fuga vigliacca dalla realtà o un ultimo atto di coraggio?

E se ciascuno di questi scommettitori avesse un motivo diverso? Forse da lontano la situazione può essere la stessa, ma i motivi sono diversi per ogni persona. Gli esseri umani non sono palle da biliardo che reagiscono sempre in modo calcolato, è tutto molto più complesso.

Abdul Hakim Alshaibi è un libico, nato nel 1977. Ha studiato ingegneria meccanica e faceva l’insegnante nella città di Sabratha. Dopo una lungaattesa, ha avuto ildono di una bambina, Sajeda. Pochi anni dopo, nel 2013, a sua figlia è stata diagnosticata un’anemia aplastica. Lui ha fatto tutto quello che era in suo potere per curarla e ha seguito ogni spiraglio di speranza: dopo un viaggio tra gli ospedali libici e quelli tunisini, alla fine del 2014 è andato in Turchia, dove la bambina è stata sottoposta a due interventi falliti di trapianto di midollo.

Il padre ha assistito impotente al deteriorarsi della sua salute. I medici gli hanno detto che non c’era altro da fare. È tornato in Libia e ha cominciato a bussare a tutte le porte; ha fatto il possibile e l’impossibile per ottenere un visto. Tutti i suoi tentativi sono falliti. Le autorità libiche non hanno mosso un dito per aiutarlo, limitandosi a farlo rimbalzare da un ufficio all’altro. Lui guardava la sua bambina spegnersi giorno dopo giorno all’ospedale centrale di Tripoli, privo di tutti i servizi.

Non li hanno abbandonati mai, finché le navi della guardia costiera italiana non sono apparse all’orizzonte

Perciò ha fatto quello che doveva fare: ha comprato una barca e delle provviste e alle 5.30 del mattino del 28 giugno 2016 è salpato assieme a Sajeda da Sabratha. Ha rifiutato l’idea di non rincorrere ogni singola possibilità quando il nostro governo gli ha voltato le spalle e il visto che non era riuscito a ottenere avrebbe condannato a morte sua figlia senza darle l’opportunità di lottare. È salpato in compagnia di una piccola flotta di barche che lo hanno affiancato per tutto il viaggio. Sulle tre barche, gli amici più cari, i vicini di casa e suo fratello. Non li hanno abbandonati mai, finché le navi della guardia costiera italiana non sono apparse all’orizzonte.

Uno degli amici ha fatto un video diventato virale in meno di 24 ore. Più tardi, alla televisione libica che lo ha contattato, Abdul Hakim ha raccontato: alle dieci la guardia costiera italiana ci ha raccolti e alle dodici abbiamo lasciato le acque libiche diretti a Catania. Siamo arrivati il giorno dopo alle due e mezzo del pomeriggio. Ci hanno accolti e adesso lei si trova in ospedale, dove sta ricevendo le cure necessarie.

A sinistra Sajeda in una clinica di Istanbul dopo un’operazione, il 6 giugno 2016; a destra Sajeda e suo padre.

E quando il giornalista libico gli ha chiesto se gli italiani li avessero trattati male o se, “come dicono”, li avessero messi in campi di accoglienza dove le condizioni di vita sono pessime, lui ha risposto: “Appena la barca è arrivata ci hanno trasferiti immediatamente; non abbiamo sperimentato le procedure di cui parla, ci hanno trattati bene. Avevo con me tutti i documenti e i referti medici, e adesso stanno facendo tutti gli esami necessari, e lei si trova in una struttura specializzata. Le sue condizioni sono stabili”.

Il ministro della salute libico ha rilasciato una dichiarazione dopo che il video è diventato virale e la storia è stata raccontata da tutti i canali televisivi. Nella dichiarazione si declinava qualsiasi responsabilità: le autorità avevano compilato una lista di cinque pazienti in condizioni simili che avevano necessità di viaggiare e la questione a quel punto era nelle mani del ministero delle finanze.

Abdul Hakim ha raccontato a un sito libico di essere stato trattato molto bene sulla nave della guardia costiera, di essere stato sistemato insieme alla figlia in un posto comodo e di aver ricevuto tutto ciò di cui avevano bisogno. Al loro arrivo, ad attenderli c’erano una squadra medica e un’ambulanza che li ha portati al Policlinico di Catania, in Via Santa Sofia 78, nel padiglione 4. Ha anche detto che alcune ong italiane si stanno facendo carico delle spese mediche.

Con tutto il cuore vorrei poterli ringraziare tutti, uno per uno, e tradurre tutti i commenti e i post usciti sui social media libici. Non quelli in cui si maledicono e si incolpano i governi libici, ma le centinaia di altri in cui si esprime gratitudine e amore al popolo italiano che si è dato da fare per aiutare Sajeda come se fosse una sua figlia.

Nella lista diffusa dal ministero della salute c’erano altri bambini che aspettano ancora un miracolo. Uno di loro era il figlio di Abdoul Wadoud Jamal, è morto pochi giorni dopo l’arrivo di Sajeda a Catania.

Questa è una barca, una storia.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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