19 aprile 2017 13:03

“Ma se da domani, improvvisamente, non potessi più vederlo, forse per te diventerebbe un paesaggio molto speciale e prezioso, non credi?”.
(Haruki Murakami, Kafka sulla spiaggia)

Ho ricordato queste parole nel bar vicino all’ingresso della città vecchia di Tunisi, dove stavamo riposando le gambe godendoci un pessimo caffè dopo aver filmato l’ultima scena del nuovo film di Andrea Segre, L’ordine delle cose. Cercavo un modo per sottrarmi al pensiero dell’inevitabile addio che incombeva come un’ombra sulla mia testa quando ho mostrato a Paola, assistente alla produzione, i romanzi di Murakami che avevo portato con me. Le ho spiegato che una volta tornato a casa non avrei fatto altro che fumare, bere caffè e leggere. Paola ha preso il suo zaino e mi ha mostrato la copertina di Kafka sulla spiaggia, perciò immagino che avesse progetti simili ai miei.

Durante le riprese abbiamo attraversato la Sicilia. “Siamo arrivati, abbiamo visto, abbiamo vinto” e ci siamo ritirati, per ricominciare da capo il giorno dopo. Al nostro arrivo creavamo dal nulla un intero frammento di vita, con tutti i suoi dettagli più intimi, per poi smontarlo alla fine della giornata. Una volta, mentre guardavamo la troupe fare i bagagli, il produttore mi ha detto: “Vedi, tra dieci minuti sarà tutto sparito, come se non fossimo mai stati qui; sono velocissimi”.

Nonostante gli anni di esperienza in questo settore, è riuscito a mantenere intatta la sua capacità di stupirsi e di godersi ogni volta tutti i dettagli, l’infinito processo della creazione e dello smantellamento come se ogni giorno rimettesse in scena in versione compressa il cerchio della vita.

Come uno squalo
Se mai dovessi avere un tatuaggio, sceglierei uno squalo (come ho detto a Marco Valero della troupe, a impedirmi di avere un tatuaggio non sono i divieti religiosi ma la mancanza di spazio: il tatuatore avrebbe bisogno di un microscopio per disegnare qualcosa sul mio braccio sottile). Ho sempre detto ai miei amici più cari di essere come uno squalo: mi muovo, dunque sono. Devo mantenermi occupato e in movimento; appena mi fermo, annego. Purtroppo l’effetto collaterale di un movimento costante è che non faccio altro che salutare gente, a volte meravigliosa. Sul set questi pensieri mi hanno ossessionato più che mai.

Qualcuno mi ha detto che questa parte del cinema non diventa mai più facile: il giorno prima fai parte di una grande famiglia e subito dopo, alla fine delle riprese, tutti prendono direzioni diverse. Per fare il lavoro che ami devi diventare membro di una moderna tribù nomade.

Nella nostra tribù molte culture diverse si sono mescolate per diventare una sola. Ho sentito Andrea dare per tutto il giorno le stesse istruzioni in italiano, francese e inglese. Tutte quelle persone si trasformeranno nei nomi e nei titoli che scorrono sullo schermo nero al termine del film, ognuna di loro essenziale e insostituibile per la realizzazione dell’opera.

Dagmawi Yimer, per esempio, è una persona unica per me. Aveva tutte le ragioni per odiare i libici. Mi ha detto: “Prima di te gli unici libici che avevo conosciuto erano quelli che mi hanno picchiato e insultato”. In un modo o nell’altro ha trovato un modo per tradurre tutto quel dolore in energia positiva: nel suo cuore non c’era traccia di odio o rabbia, e abbiamo legato nel giro di poco tempo. Non dimenticherò mai la storia di Dagmawi, l’uomo sfuggito all’inferno libico e sopravvissuto per diventare un regista geniale. Il suo nome vuol dire “il secondo” o “il successore”, e anche il mio nome significa “il successore”.

Non c’è bicchiere di limonata o falso sorriso sufficiente a farci dimenticare il fatto che l’ospitalità ricevuta dai libici è legata al valore del dinaro libico

L’8 aprile io e mio fratello siamo andati in Tunisia, due giorni prima del resto della troupe, per le ultime riprese del film. All’albergo aspettavano una troupe italiana, non due libici solitari, e ci hanno trattati male: il personale non si è mai lasciato sfuggire un sorriso con noi, e ogni volta che uscivamo o entravamo ci bloccavano con una maleducata espressione tunisina usata per rivolgersi ai mendicanti: “Cosa volete qui?”. C’era solo qualche altro cliente oltre a noi, e pensavamo che dopo due giorni si sarebbero ricordati di noi, anche perché uscivamo spesso visto che in albergo servivano soltanto la colazione.

Appena la troupe è arrivata e ha messo piede nella hall, tutti, dal direttore in giù, hanno cominciato ad andare in giro con un sorriso stampato sul viso: perfino il brontolone simile a una sfinge portava di corsa bicchieri di limonata strillando “benvenuti” in almeno due lingue. A me e mio fratello ha offerto l’ultimo bicchiere, ma noi lo abbiamo rifiutato. “Grazie al cielo finalmente abbiamo visto i tuoi denti”, abbiamo aggiunto.

Naturalmente quella sera hanno aperto il ristorante, ma noi abbiamo rifiutato di mangiare lì. Il giorno dopo hanno avvicinato mio fratello e, rivolgendosi a lui con il mio nome, gli hanno chiesto: “Signor Wael, desidera il suo caffè al suo solito tavolo, fuori?”. Prima dell’arrivo della troupe io e mio fratello dovevamo comprare il caffè al bar accanto e poi tornare a sederci al nostro “solito tavolo”, e abbiamo deciso di continuare a farlo fino al giorno della partenza. Non c’è bicchiere di limonata o falso sorriso al mondo sufficiente a farci dimenticare il fatto che l’ospitalità ricevuta dai libici qui è legata al valore del dinaro libico. Poiché da quando abbiamo lasciato la Libia la moneta libica ha toccato il nuovo eroico record negativo di dieci dinari per un euro, il mistero è risolto.

Tuttavia, se si esce dalla capitale e dalle città turistiche, nei centri più piccoli è tutto diverso. I tunisini ti invitano in casa loro con un grande sorriso, come ha fatto Azouz, che avevamo già incontrato durante i sopralluoghi per le ambientazioni del film. Si ricordava di noi quando siamo tornati a girare, e ha detto ad Andrea: “Siete i benvenuti nella mia casa, e lo sarete sempre tutte le volte che vorrete tornare”. Ha aperto casa sua per farci fare la pausa pranzo e sistemare le nostre attrezzature. Quando abbiamo finito di girare, dopo diverse ore, non ha voluto accettare soldi ed è apparso triste e irritato quando abbiamo insistito. Mi ha detto: “Non l’ho fatto per i soldi, siete miei ospiti e tu sei libico, sei mio fratello”.

Il fantasma di Charlie
A ogni modo, eravamo tutti felici di essere a Tunisi, soprattutto Paolo Pierobon, che trascorreva il tempo a fare esperimenti con i dettagli. Devo ammettere che mi mancherà molto una delle mie parti preferite della giornata lavorativa: quando Paolo se ne andava, stanchissimo, nel freddo della notte dopo lunghe ore di lavoro sul set, c’erano sempre decine di persone che lo aspettavano per potersi fare una foto con lui. Lo guardavo scuotersi di dosso la stanchezza, sorridere e cercare di mostrarsi al meglio per loro, tutte le volte. Lo sguardo sui visi delle persone non aveva prezzo. Non dimenticherò mai il rispetto che dimostrava nei confronti del suo pubblico, e non dimenticherò mai il suo modo gentile di trattarmi come un suo pari quando abbiamo girato una scena insieme (oh sì, anche io ho avuto una parte, ma questa è un’altra storia).

Eppure io e mio fratello non vedevamo l’ora di tornare a Tripoli: per me la Libia, con tutta la sua follia, le sue milizie, la morte e il caos è comunque più calorosa e più bella di Tunisi, e poi naturalmente c’è il caffè. Mai sottovalutare il caffè libico.

La mattina dopo il nostro arrivo a Tripoli non ho potuto fare a meno di sentire parlare di “Charlie Charlie”, il gioco di predizione che fanno i ragazzini usando le matite per ottenere le risposte alle domande formulate. Tutti i giornali e le trasmissioni televisive libiche parlavano di Charlie e dei venti casi di suicidio che secondo i mezzi d’informazione si sono verificati nella città di Al Baida a causa di questo gioco, diventato una mania in Libia. Perfino il ministro dell’interno dall’est del paese ha rilasciato una dichiarazione ufficiale mettendo in guardia i genitori da questo “gioco demoniaco” e dichiarando Charlie (non sto scherzando) un pericolo per la sicurezza nazionale libica.

Non pensare di ucciderti, e soprattutto non lasciare che a farlo sia il demone messicano: questo è compito dei demoni del posto

Era al tempo stesso triste ed esilarante, come sempre: tutti gli analisti, i personaggi religiosi e i funzionari di polizia adesso si preoccupano del demone messicano Charlie, lo accusano di uccidere i libici, anche perché è vietato suicidarsi. Corri il rischio di morire per un proiettile inesploso tutte le volte che attraversi la strada senza che i notiziari parlino di te, ma non pensare di ucciderti, e soprattutto non lasciare che a farlo sia il demone messicano: questo è compito dei demoni del posto.
Il giorno dopo ho scoperto che durante la mia breve assenza il prezzo del pepe in Libia era aumentato di più del 200 per cento. Volevo comprare un po’ di pepe per portarlo alla segretaria di produzione Gina Neri, che colleziona e pianta peperoncini da tutto il mondo, la prossima volta che andrò in Italia.

Io: “Charlie, Charlie, avremo presto la pace in Libia?”.

Charlie: “No, no, no, no, no, no… lol, no”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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