08 febbraio 2019 12:01

Tripoli sbadiglia, si prende lentamente tutto il tempo per svegliarsi. Quando esci dalla porta ti accoglie una brezza burrascosa e il sole nascosto dietro le nuvole macchia l’orizzonte. I camion della spazzatura arrancano piano sull’asfalto, i netturbini li seguono afferrando i sacchi neri dell’immondizia dalle pile ammonticchiate lungo i marciapiedi.

Poche persone fanno la fila al forno, un po’ di più si ritrovano al bar a chiedere la loro dose mattutina di caffeina. La vita è normale qui, nella zona nord di Tripoli, qualunque possa essere il significato della parola “normale” su questa sponda del Mediterraneo.

La mattina del 19 gennaio significava che si potevano sentire delle esplosioni in lontananza, ma le bombe non ti cadevano addosso, la battaglia era ancora confinata nella zona sud del città, e questo era già tanto.

Materiale da notiziari
Si può ripetere la stessa storia un numero limitato di volte prima che il pubblico perda del tutto interesse. Alla fine tutto diventa noioso. I piccoli tragici racconti quotidiani della Libia non fanno eccezione; alla fine smetteranno di preoccupare chiunque non ne sia una vittima diretta.

Tutto diventa noioso materiale da notiziari, un giornalista dall’altra parte del mare può raccontarlo in poche righe, seduto in un comodo ufficio negli Stati Uniti. Poche parole seguite dall’ultimo conteggio delle vittime, chi è morto per i colpi di arma da fuoco, chi in fondo al mare; forse resterà spazio per l’opinione di un esperto a noleggio sul conflitto libico, di solito qualcuno che non è mai stato in Libia. Alla fine sceglieranno una foto scattata da uno dei fotoreporter “locali”, tra i pochi che ancora lavorano in Libia.

Le condizioni di lavoro di questi fotoreporter e giornalisti locali sono segnate dall’ostilità delle milizie e delle autorità, dal controllo e dalla censura e a volte dalle accuse di essere agenti della cospirazione mondiale contro la Libia.
Le loro scelte si sono ridotte in modo considerevole nel corso degli anni; oggi possono lasciare il lavoro o lasciare il paese, e se rifiutano di fare una delle due cose devono dedicarsi ad attività meno pericolose. In pochi hanno continuato il loro lavoro, assumendosi molti rischi in cambio di poco o niente.

A Tripoli la nostra piccola comunità di fotografi, cameraman e registi è più frammentata della realtà politica

Uno di loro era Mohamed Ben Khalifa, un fotoreporter e cameraman libico di 35 anni, sposato con Lamia Jamal e padre della piccola Rayan, di sei mesi. Oltre a occuparsi delle attività e degli eventi quotidiani nella capitale, Mohamed si recava spesso dall’altra parte di Tripoli, il lato più oscuro di una città oscura, frequentava i “parchi giochi” delle milizie, i centri di detenzione e le zone di conflitto, ed è forse l’unico fotografo ad aver dedicato tempo a monitorare le coste, rifiutando di far passare inosservati i cadaveri dei migranti. Per più di quattro anni ha lavorato soprattutto con l’agenzia di stampa statunitense Associated press (Ap).

Quel 19 gennaio Mohamed ha lasciato la via Al Joumhouria, nella zona nord di Tripoli, ed è andato a sud, nella zona di conflitto, dove le milizie tripoline e la milizia Kanyat, la settima brigata, avevano lanciato un’altra serie di attacchi. Poco dopo essere arrivato sul fronte di Sidi al Sayah, Mohamed è stato ferito gravemente alla testa e non ha fatto in tempo ad arrivare in ospedale.

Ho avuto la notizia diverse ore dopo il tramonto dal mio amico Ahmed Aboub. “Quei bastardi l’hanno ucciso”, ha detto, poi ha aggiunto qualcosa e si è zittito. Ho rispettato il suo silenzio finché non siamo andati via. Ahmed Aboub è un fotografo e un cameraman, ha lavorato per più di tre anni con Mohamed, è stato lui a farmelo conoscere. La prima immagine che mi viene in mente di lui è il suo sorriso. Aveva un sorriso mite, gentile e contagioso.

Un titolo breve e distaccato
A Tripoli la nostra piccola comunità di fotografi, cameraman e registi è più frammentata della nostra scena politica. Lavoriamo in piccoli gruppi, non ci aiutiamo gli uni con gli altri e non perdiamo mai occasione di dire quanto poco ci piacciamo. Mohamed era forse uno dei pochi a essere amato, rispettato e conosciuto da tutti, sul piano personale e su quello professionale. Il giorno dopo i fotografi erano tutti in lutto per lui. Qualcuno ha anche manifestato esibendo le sue foto, scandendo lo slogan “il giornalista non è un terrorista”, lanciato qualche tempo fa da giornalisti e fotografi per protestare contro i continui abusi nei loro confronti.

Molte agenzie di stampa e siti web hanno parlato diffusamente della morte di Mohamed, della sua vita e del suo lavoro. Su tutto però si stagliava lo strano modo in cui Ap, l’agenzia per cui Mohamed svolgeva gran parte del suo lavoro, aveva scelto di riportare la notizia dedicandogli uno spazio minimo e usando un tono distaccato, come se volesse prenderne le distanze. Il titolo recitava “Giornalista freelance ucciso nel corso di una nuova ondata di scontri in Libia”.

L’atteggiamento di Ap ha provocato forti critiche da parte di giornalisti libici e internazionali. Era triste, perché ci si sarebbe aspettati un po’ di riconoscenza, dignità e rispetto in più nei confronti di un collega morto. Due giorni dopo Ap ha pubblicato un necrologio e una retrospettiva del suo lavoro, e sebbene nel titolo quel messaggio di distacco avesse assunto toni più untuosi, continuava ancora a emergere dal testo. La risposta migliore e più virale è stata una foto del tesserino di Mohamed recuperato dal suo cadavere, intriso di sangue, con su scritti il suo nome, la sua professione e il nome dell’agenzia per cui lavorava, Associated press.

Attesa infinita
La battaglia è proseguita ancora per qualche giorno, il cielo notturno di Tripoli era fosco come una palude, come se dentro vi affondassero i cadaveri dei sogni morti dei suoi abitanti. A volte ti sembra quasi di poter toccare con la punta delle dita la tristezza della città. Si posa sui marciapiedi, fredda e pesante come la pioggia di gennaio, il dolore ti piomba addosso da tutte le parti, come una bomba da mortaio, casuale, crudele e irreversibile.

Alla fine tutto diventa noioso e la nostra storia non fa eccezione. È andata a finire esattamente come tante altre volte in passato: le milizie hanno raggiunto un altro accordo di cessate il fuoco, quattordici persone sono state uccise e sessanta ferite.

La vita è normale qui, nella zona nord di Tripoli, qualunque possa essere il significato della parola “normale” su questa sponda del Mediterraneo. E da anni significa che questi brevi, fragili e agitati periodi di pace sono uno stato innaturale, perché viviamo in una città in cui gli scontri sono come un’auto ferma a un incrocio, in perenne attesa del prossimo semaforo verde.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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