17 maggio 2021 15:17

Quando il governo etiope guidato da Abiy Ahmed ha lanciato un’offensiva militare contro le autorità ribelli della regione del Tigrai, il primo ministro aveva promesso un’operazione rapida e chirurgica.

La guerra, cominciata il 3 novembre 2020 mentre il resto del mondo era concentrato sulle elezioni negli Stati Uniti, ha avuto un costo terribile e non se ne vede la fine. Milioni di tigrini hanno adesso urgente bisogno di assistenza. Per sconfiggere le milizie tigrine, l’esercito federale etiope si è alleato con le forze che garantiscono la sicurezza della regione dell’Amhara, al confine meridionale del Tigrai, e con l’Eritrea, che ha inviato i suoi soldati. Tutte le parti in conflitto sono accusate di crimini di guerra.

I mezzi d’informazione hanno documentato che le truppe federali hanno ucciso tigrini disarmati durante l’avanzata nel Tigrai per rovesciare l’amministrazione regionale guidata dal Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), il partito che per anni ha dominato la politica etiope. Tra le atrocità riferite c’è l’esecuzione di un giovane uomo, gettato dalla cima di un dirupo lo scorso gennaio vicino alla città di Axum, e l’uccisione di 160 persone l’8 gennaio nel villaggio di Bora, nel Tigrai meridionale.

La Commissione etiope per i diritti umani, un’istituzione federale, ha accusato i soldati eritrei di aver ucciso più di cento civili ad Axum nel novembre del 2020. Secondo diversi resoconti, le truppe di Asmara avrebbero commesso anche altri massacri, saccheggi e violenze sessuali. Quest’ultima accusa è stata rivolta anche ai soldati dall’esercito etiope, che sarebbero responsabili di stupri di gruppo, riduzione in schiavitù sessuale e di aver costretto alcuni uomini a violentare delle loro familiari. L’Eritrea nega le accuse, mentre l’Etiopia ha appoggiato un’inchiesta congiunta della Commissione nazionale per i diritti umani e delle Nazioni Unite.

Anche le forze armate amhara e tigrine avrebbero commesso gravi abusi: le prime sono accusate di aver ucciso dei tigrini e di averli scacciati da alcuni territori nell’ovest del paese che, secondo gli amhara, il Tpfl aveva occupato con la violenza all’inizio degli anni novanta. Le forze armate tigrine sarebbero responsabili di aver massacrato dei civili amhara.

Insurrezioni sotto traccia
Nel dicembre del 2020 i leader del Tplf si sono ritirati nella parte più interna della loro regione, dando vita a quella che, come ha ammesso Abiy, è un’insurrezione sotto traccia, che gode di ampio sostegno popolare. In tutta l’Etiopia potrebbero facilmente esplodere altre rivolte, soprattutto nell’Oromia, la regione più grande del paese. Agli occhi di molti etiopi si corre il rischio che la federazione si spacchi violentemente.

In Etiopia non c’è accordo sull’equilibrio di potere tra il centro e le regioni

A scatenare la guerra nel Tigrai è stato il tentativo di un gruppo dissidente di alti ufficiali tigrini e di gruppi paramilitari locali di conquistare la base del comando militare nazionale, che si trovava in questa regione del nord per contrastare l’Eritrea. I leader tigrini, dal canto loro, sostengono di aver voluto prevenire un intervento dell’esercito federale dopo la crisi costituzionale che ha visto il governo regionale del Tigrai contrapporsi a quello nazionale. La vera causa del conflitto, però, sono le dispute riguardanti la natura stessa dello stato etiope.

Lo scontro tra centro e regioni autonome
In Etiopia non c’è accordo sull’equilibrio di potere tra il centro e le regioni, e sul ruolo dei gruppi etnolinguistici nel sistema politico e federale. Il Tplf, insieme ad altri gruppi ribelli etnonazionalisti, ha combattuto negli anni ottanta contro un regime militare centralizzatore, considerato l’ennesima incarnazione di una politica di governo assimilazionista, che avrebbe cancellato le diverse realtà culturali etiopi.

Dal 1991, una coalizione di governo guidata dal Tplf ha creato delle regioni amministrative basate sulle identità etnolinguistiche, garantendogli un’autonomia che prevedeva anche il diritto alla secessione. Nella pratica, però, questo governo ha monopolizzato il potere e represso i dissidenti, facendo esplodere nel 2015 delle proteste di massa. È in questa situazione che Abiy è diventato primo ministro nel 2018.

Alla fine del 2019, i partiti di governo di tutte le regioni d’Etiopia sono confluiti nel nuovo Partito della prosperità di Abiy. Ma il Tplf ha rifiutato di partecipare. I leader del Tigrai – oltre a importanti politici che rappresentano il popolo oromo – hanno considerato la fusione come la mossa iniziale di un tentativo d’indebolire l’autonomia dei governi locali. A quel punto Abiy avrebbe dovuto invitare intorno a un tavolo le fazioni più irrequiete. Invece, è andato dritto per la sua strada.

Quando la pandemia ha fatto slittare le elezioni dell’agosto scorso e il governo ha prorogato il suo mandato, sono cominciati gli arresti di oppositori e le espulsioni delle voci critiche dal governo. Denunciando i metodi repressivi dell’esecutivo, i due principali partiti d’opposizione oromo hanno deciso di boicottare le elezioni previste per l’estate di quest’anno.

I sostenitori di Abiy vedono in lui un uomo capace di far superare all’Etiopia il sistema etnofederalista che, a loro avviso, minaccia la sopravvivenza del paese. Ma finché il governo non tenderà la mano alle opposizioni, rischierà di seguire lo stesso copione autoritario che ha portato alla caduta dei precedenti regimi.

Secondo la stessa logica, invece di continuare a reprimere la resistenza nel Tigrai, causando enormi sofferenze alla popolazione civile, le autorità federali dovrebbero mettere fine alle ostilità. E permettere agli aiuti umanitari di raggiungere i cinque milioni di persone nella regione che ne hanno bisogno.

Dopo un iniziale divieto d’ingresso, le organizzazioni umanitarie oggi sono presenti nel Tigrai. Ma poiché continuano i combattimenti vanno avanti, l’accesso è limitato e le consegne di generi alimentari stanno raggiungendo al massimo un quinto di chi ne ha bisogno. Un posto di blocco sorvegliato da soldati eritrei ha tenuto chiusa per settimane una delle strade principali. E, con l’arrivo della stagione della semina, le truppe eritree ostacolano il lavoro nei campi, dopo aver saccheggiato le attrezzature agricole.

Minoranze vulnerabili
Per riformare un sistema federale così contestato serve, sul lungo periodo, un’opera di compromesso. Per quanto imperfetto, il sistema etnofederalista è stato la risposta alla marginalizzazione, operata dallo stato imperiale, delle diverse comunità, che dagli anni sessanta hanno alimentato le rivolte. Chi oggi si oppone al sistema, tuttavia, ha ragione nel dire che esso irrigidisce le identità etniche e crea minoranze vulnerabili in ogni regione.

Date queste divisioni, non esiste una soluzione pronta per l’uso. I tigrini non abbandoneranno le richieste di una maggiore autonomia regionale. Molti etiopi che vivono nelle città, soprattutto quelli legati alla comunità amhara, vogliono vedere la fine di una politica e di una struttura statale fondate sull’appartenenza etnica. Per i nazionalisti oromo questo è impensabile, perché ai loro occhi la mobilitazione intorno all’identità etnica è uno strumento necessario per superare discriminazioni del passato. Saranno fondamentali il pragmatismo e la capacità di trovare aree d’interesse comune.

Questo potrebbe significare, per esempio, applicare meglio il decentramento fiscale; rafforzare i diritti delle minoranze permettendo alle varie comunità, per esempio, di aprire scuole dove s’insegni la loro lingua. Rafforzare la società civile darebbe impulso ai diritti individuali.

Anche se niente di tutto questo sarà facile, i partner internazionali dell’Etiopia dovrebbero spingere Abiy, vincitore del premio Nobel per la pace, a non considerarsi come il salvatore solitario del paese, ma come un leader capace di coinvolgere coraggiosamente gli oppositori, permettendo a un corpo politico aspramente diviso di disegnare pacificamente una nuova entità fondata sulla conciliazione reciproca. Se invece Abiy dovesse ripetere gli errori dei predecessori e soffocare le voci contrarie, dobbiamo aspettarci nuove catastrofi.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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