01 marzo 2016 15:44

Gli elettori non sanno cosa sia la gratitudine. I politici lo dicono sempre per giustificare un cattivo risultato. In Irlanda, dopo le elezioni parlamentari del 26 febbraio, lo ripetono i tecnocrati che sostenevano la coalizione uscente e sconfitta alle urne, composta dal centrodestra del Fine Gael e dal Partito laburista.

Nel 2011, lo stato irlandese era quasi in bancarotta e aveva da poco ricevuto un pacchetto di aiuti finanziari dalla troika. Alle elezioni di quell’anno il paese diede la sua fiducia al governo di Enda Kenny, leader del Fine Gael, che ha potuto lavorare con una maggioranza senza precedenti.

Il conto della crisi

Cinque anni dopo, l’economia cresce a buon ritmo, il tasso di disoccupazione è tornato sotto il 10 per cento e dopo anni di tagli di bilancio il governo ha finalmente riportato il debito pubblico sotto il 100 per cento del pil. Le autorità economiche europee si sono aggrappate all’esempio dell’Irlanda per dimostrare che le loro ricette di austerità possono funzionare.

Gli elettori però la vedono in modo diverso, e l’hanno dimostrato punendo Kenny. Probabilmente non hanno tutti i torti a essere scontenti. In questi cinque anni gli standard di vita, in Irlanda, sono peggiorati. Per esempio, chi ha manifestato contro il drastico aumento delle tariffe dell’acqua ha scontato dei giorni in carcere, mentre i banchieri che hanno condotto il paese al fallimento vanno in giro senza problemi. Il lavoro precario è diffuso e i servizi pubblici funzionano sempre peggio. Il conto della crisi l’hanno pagato i cittadini e adesso la gente freme di rabbia.

Il Fine Gael si era sentito rassicurato, nel 2015, dalla vittoria inattesa nel Regno Unito del conservatore David Cameron, riconfermato dopo cinque anni ininterrotti di tagli alla spesa pubblica. I laburisti, dal canto loro, in campagna elettorale hanno pensato di poter rivendicare l’introduzione del matrimonio omosessuale. Ma i risultati del 26 febbraio hanno confermato che per un partito di sinistra è sempre una scelta fallimentare quella di appoggiare un governo che applica politiche di austerità.

E cosa ne è stato del Fianna Fáil? Nel 2011, al momento del crollo, il principale partito conservatore della repubblica irlandese – storico rivale del Fine Gael – era coinvolto fino al collo negli scandali bancari e immobiliari che hanno aggravato la crisi. Alle elezioni di quell’anno scese al terzo posto, una caduta clamorosa che spinse alcuni a chiedersi se il partito si sarebbe mai ripreso.

Gli elettori irlandesi hanno chiarito cosa rifiutano, non cosa sostengono

Ma contando su un consenso che ormai dura da cent’anni (cioè da quando nel 1916 scoppiò la guerra civile che poi si concluse con l’indipendenza dal Regno Unito) e su un forte radicamento nelle comunità rurali, il 26 febbraio il Fianna Fáil ha dimostrato di essere ancora solido, recuperando terreno e ottenendo pochi voti in meno rispetto al suo vecchio nemico. Può anche darsi che il Fianna Fáil si rifaccia troppo alla sua storia, ma è sicuramente pragmatico e non deve giustificare ideologicamente ogni sua scelta. Così, il leader Micheál Martin ha approfittato dello scontento popolare dovuto ai tagli e ha svoltato leggermente a sinistra per contrastare le promesse di Kenny riguardo a un alleggerimento delle imposte.

Oltre alla ripresa del Fianna Fáil, dai risultati del 26 febbraio emerge con maggiore chiarezza la frammentazione del panorama politico irlandese. La somma dei voti del blocco tradizionale conservatore (composto da Fianna Fáil e Fine Gael) è scesa per la prima volta sotto il 50 per cento. L’altra metà dei voti è stata divisa tra lo Sinn Féinn, uscito rafforzato dallo scrutinio, un Partito laburista indebolito, gli indipendenti, la sinistra radicale e altri piccoli gruppi. Come in Spagna e Portogallo, periferie dell’eurozona colpite in maniera analoga dalla crisi, in Irlanda le elezioni non hanno stabilito chi dovrà governare. Gli elettori irlandesi hanno chiarito cosa rifiutano, non cosa sostengono. E la classe dirigente irlandese ha imparato che se un governo rimane al potere abbastanza a lungo mentre la gente soffre, prima o poi la pagherà.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

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