05 luglio 2020 10:05

“George Floyd e mio fratello sono morti nello stesso modo”: lo dice Assa Traoré, il cui fratello, Adama, un francese di origini maliane di 24 anni, è morto alla periferia di Parigi nel luglio del 2016 mentre era sotto la custodia dalla polizia. Adama era stato fermato da tre agenti dopo un diverbio durante un controllo dei documenti. Ha perso conoscenza a bordo dell’auto ed è morto nei locali del commissariato. Quando sono arrivati i paramedici era ancora ammanettato. Uno dei tre gendarmi che lo avevano arrestato ha dichiarato che lui e i suoi colleghi erano saliti sopra Traoré per tenerlo fermo.

Dal giorno della sua morte, i familiari di Traoré si battono per avere giustizia. Hanno lanciato petizioni, organizzato manifestazioni e commissionato autopsie indipendenti da cui è emerso che il ragazzo è morto per asfissia. Ma, nonostante i loro sforzi, non hanno ottenuto risposte soddisfacenti dalle autorità. A maggio una perizia della polizia ha scagionato gli agenti. Nessuno dei tre agenti ha mai rischiato di essere incolpato della morte di Traoré, e tutti e tre sono ancora in servizio. Alcuni colleghi della stessa brigata sono stati perfino lodati per aver represso le proteste nate in seguito alla sua morte.

L’assassinio di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis e le proteste negli Stati Uniti hanno riacceso i riflettori sulla morte di Adama Traoré e hanno rafforzato gli appelli al governo francese affinché affronti il tema della brutalità delle forze dell’ordine. Quando il Comitato verità e giustizia per Adama, creato da Assa Traoré, ha invitato i cittadini di Parigi a manifestare, sono scese in piazza 23mila persone (per gli organizzatori erano 60mila). La manifestazione ha dimostrato che una parte ampia della società chiede che le forze dell’ordine si prendano la responsabilità per le loro azioni violente.

Le autorità francesi cercano sempre di zittire qualsiasi figura pubblica si azzardi a mettere in dubbio la condotta delle forze dell’ordine

Ma le autorità hanno risposto in modo ostile. In una lettera ai 27.500 agenti delle forze dell’ordine di Parigi, il capo della polizia della capitale, Didier Lallement, ha espresso solidarietà agli agenti per le “accuse di violenza e razzismo ripetute dai social network e da certi gruppi di attivisti”. La polizia di Parigi “non è né violenta né razzista”, ha aggiunto Lallement. La lettera ha suscitato polemiche, ma di certo non è stata una sorpresa.

Pochi giorni prima dell’assassinio di George Floyd, l’attrice e cantante franco algerina Camélia Jordana aveva accusato pubblicamente la polizia francese durante un talk show dell’emittente France2. Jordana ha affermato: “Uomini e donne che lavorano nelle periferie vengono massacrati unicamente a causa del colore della loro pelle. È un dato di fatto. In Francia ci sono migliaia di persone che non si sentono al sicuro di fronte a un poliziotto, e io sono tra loro”.

Per molti francesi, e in particolare per chi appartiene alle minoranze, le parole di Jordana sono state una semplice constatazione dei fatti, ma per le autorità erano un attacco ai fondamenti della repubblica francese. I sindacati di polizia hanno chiesto al governo di processare Jordana per diffamazione. Al dibattito ha preso parte anche il ministro dell’interno, Christophe Castaner, che ha dichiarato: “La libertà di dibattere in pubblico non ammette che si dica qualsiasi cosa. Le affermazioni di Jordana sono false e ingiuste”.

Le parole del ministro sono apparse come un attacco alla libertà di espressione. Ma non hanno sorpreso chi sa che le autorità francesi cercano sempre di zittire qualsiasi figura pubblica si azzardi a mettere in dubbio la condotta delle forze dell’ordine. In fondo, nel marzo del 2019, all’epoca delle contestazioni dei gilet gialli, il presidente Emmanuel Macron ha detto: “Non si parli di repressione né di violenza da parte della polizia. Sono espressioni inaccettabili in uno stato di diritto”.

Controlli arbitrari
Molte ricerche, oltre alle statistiche del governo e alle ben documentate esperienze vissute dalle minoranze, dimostrano che in Francia i cittadini non bianchi o poveri sono i più colpiti dalle violenze della polizia. Nel 1999 la cosiddetta “patria dei diritti umani” diventò il primo paese dell’Unione europea a essere condannato per tortura dalla corte europea per i diritti umani a causa degli abusi, anche sessuali, commessi ai danni di Ahmed Selmouni, un ragazzo francese di origini nordafricane.

Nel 2012, in un rapporto di 55 pagine, Human rights watch ha scritto: “La polizia francese usa poteri troppo ampi per condurre verifiche ingiustificate e illecite dei documenti d’identità di ragazzi e adolescenti neri e arabi”. Nel 2015 la corte d’appello di Parigi ha sanzionato lo stato francese per aver permesso alle forze dell’ordine di condurre controlli arbitrari dell’identità di alcune persone solo in base al loro aspetto esteriore. Lo stato ha chiesto alla corte di cassazione di annullare la sentenza, e ha sostenuto che le forze di polizia stanno conducendo legittimamente un numero sproporzionato di controlli dei documenti su maschi neri e arabi perché questi avrebbero “maggiori probabilità di essere stranieri e quindi privi di documenti”. Nonostante gli sforzi delle autorità per avallare gli atti razzisti delle forze dell’ordine, la corte di cassazione ha confermato la condanna.

Negli ultimi mesi sono usciti molti altri casi. Ad aprile il sito StreetPress ha rivelato l’esistenza di un gruppo Facebook privato con ottomila iscritti sul quale dei poliziotti si scambiavano regolarmente contenuti sessisti e razzisti e prendevano in giro le vittime delle violenze commesse dalle forze dell’ordine.

A maggio il Difensore dei diritti, l’autorità indipendente che la Francia ha creato per combattere ogni discriminazione, ha pubblicato un rapporto in cui accusa la polizia di Parigi di “discriminazioni sistematiche” ai danni di giovani appartenenti alle minoranze. Il 4 giugno Mediapart ha rivelato che a dicembre un agente nero ha denunciato ai superiori che alcuni suoi colleghi facevano parte di un gruppo su WhatsApp in cui condividevano messaggi suprematisti, sessisti e omofobi. Cinque mesi dopo tutti gli agenti accusati sono ancora al loro posto.

Ma l’elenco è lungo. Anche se le forze dell’ordine in Francia non usano le armi da fuoco come i loro colleghi statunitensi, questo non gli impedisce di fare del male. Gran parte dei decessi di persone fermate dalla polizia in Francia sono stati provocati dall’ostruzione delle vie respiratorie. Nel 2007 Lamine Dieng è morto per asfissia a bordo di un furgone della polizia. Nel 2008 Hakim Ajimi ha perso la vita dopo che due agenti di polizia gli hanno stretto la gola e gli hanno compresso la cassa toracica. Nel 2015 Amadou Koume è morto per asfissia dopo essere stato arrestato in un caffè. Un anno dopo Adama Traoré è morto sotto il peso di tre gendarmi. A parte il modo in cui è morta, la maggioranza delle vittime aveva in comune un’altra cosa: un nome che sembrava arabo o africano.

L’8 giugno, in seguito alle manifestazioni di Parigi, il governo francese ha finalmente annunciato che d’ora in poi alle forze dell’ordine sarà vietato usare la presa al collo negli arresti. Il ministro dell’interno Castaner ha dichiarato che è un “metodo pericoloso” e non sarà più insegnato nei corsi d’addestramento delle forze dell’ordine. Contraddicendo le sue dichiarazioni recenti, secondo cui le affermazioni di Camélia Jordana sulla brutalità delle forze dell’ordine erano “false e ingiuste”, Castaner ha aggiunto: “Nella nostra società e nella nostra repubblica non c’è posto per il razzismo”. L’apparente dietrofront del governo sull’uso della presa al collo durante gli arresti dimostra che la rabbia e le proteste pubbliche possono fare breccia nel muro d’indifferenza eretto dalle autorità francesi davanti alle brutalità commesse dalla polizia.

Ma questo è solo l’inizio. Attivisti, ong, istituzioni e tribunali internazionali hanno cominciato da tempo a presentare alle autorità francesi prove dei misfatti delle forze dell’ordine. Il fatto che il governo si rifiuti da anni di intervenire, e abbia perfino negato che esista un problema, dimostra che non solo tollera, ma tacitamente appoggia, le violenze commesse dalla polizia contro le minoranze. Inoltre i tentativi delle autorità di mettere a tacere personalità pubbliche come Camélia Jordana indicano che lo stato francese non è ancora pronto a riconoscere la gravità della situazione.

Per mettere fine una volta per tutte alla brutalità della polizia, per rendere giustizia ad Adama Traoré e per garantire che tutti i cittadini siano trattati secondo i princìpi guida della repubblica, liberté, égalité, fraternité, la lotta deve continuare.

(Traduzione di Marina Astrologo)

Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

Leggi anche:

Guarda anche:

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it