20 aprile 2015 12:23

A poche ore da quella che potrebbe essere la strage nel Mediterraneo più grande di sempre, alcuni esponenti della destra, da Matteo Salvini a Daniela Santanchè, hanno chiesto a gran voce il “blocco navale”.

Non è una novità. È successo spesso negli ultimi venticinque anni, mentre il Mediterraneo si andava trasformando in un enorme cimitero e cominciavamo a contare a migliaia i morti tra le sue onde. Ogni qualvolta l’aumento degli sbarchi ha generato l’utilizzo della parola “invasione”, questa ne ha tirato subito in ballo altre due: blocco navale.

Il paradosso è che il ragionamento viene quasi sempre svolto dopo una grande strage, come quella di ieri, stabilendo la strana associazione mentale morti-invasione.

Salvini, Santanchè o le testate come Libero o il Giornale che riempiono le proprie pagine con le loro dichiarazioni, pensano che basti evocare come un mantra la costruzione di un alto muro tra le onde per far scomparire gli uomini e le donne che si sono riversate sulle coste libiche. È un modo di ragionare antico quanto le emigrazioni.

Il mito del blocco navale comincia a crearsi alla metà degli anni novanta, davanti all’esodo albanese verso le nostre coste. Nel marzo del 1997, quando il paese balcanico sprofondò in uno stato di guerra civile, la leghista Irene Pivetti, ex presidente della camera, sostenne che per fermare l’invasione sarebbe stato necessario “ributtare a mare” tutti i profughi albanesi.

Al governo c’era Romano Prodi. Fu allora che, di fronte a un esodo di poche decine di migliaia di persone che scappavano dalla guerra civile, furono elaborate per la prima volta le politiche di respingimento. Sotto la pressione della destra, l’Ulivo decise di inviare le navi militari a bloccare i barconi in alto mare. Risultato? Appena due giorni dopo la promulgazione di quelle misure militari (dette tecnicamente manovre di harassment e destinate a creare effettivo pericolo per la navigazione) una motovedetta stracarica di donne e bambini, la Katër i Radës, fu speronata dalla Sibilla, una corvetta della nostra marina militare. Si rovesciò in pochi secondi, morirono in ottantuno e 27 furono i dispersi.

Fu uno dei momenti più bui delle nostre politiche migratorie. Ciò nonostante il mito del blocco navale ha continuato ad alimentarsi. Tra il 2008 e il 2011 i respingimenti in accordo con il governo libico sono stati condotti in maniera meno appariscente: i migranti intercettati in alto mare, benché potenzialmente profughi, sono stati riportati a Tripoli e consegnati ai carcerieri di Gheddafi. Allora, al governo c’era Silvio Berlusconi e al ministero dell’interno Roberto Maroni.

I blocchi navali non hanno mai arrestato i flussi migratori. Al contrario hanno contribuito a far aumentare il numero dei morti.

Chi invoca l’istituzione di un blocco navale, chi pronuncia le due parole magiche, dovrebbe innanzitutto chiedersi: ma come si attua, concretamente, un blocco navale in alto mare? Come si ferma un barcone che non vuole arrestare la sua corsa? Lo si abborda? Lo si sperona? In casi estremi, lo si bombarda?

Una volta che le misure di dissuasione vengono meno, una volta che l’inseguimento in alto mare “con misure cinematiche di disturbo” (proprio con queste parole le direttive del ministero della difesa nel 1997 spiegavano la misteriosa parola harassment) risulta inefficace, quali sono i gradi ulteriori di intervento?

Ogni blocco navale è inefficace, almeno che non si vogliano aumentare le nostre complicità nell’enorme mattanza di queste settimane.

L’operazione Mare nostrum non ha solo permesso di salvare decine di migliaia di vite umane. Ha anche favorito un capovolgimento radicale dell’impiego della marina militare, rispetto alle pagine nere del passato, cosa di cui una parte dei massimi vertici del nuovo stato maggiore si è detta fiera. In attesa che siano regolamentati i viaggi tra le due coste, una vasta operazione di protezione e monitoraggio nelle acque internazionali è sicuramente più efficace di ogni blocco navale. In ogni caso, meno lesiva per la nostra dignità.

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