06 marzo 2017 18:04

L’appuntamento è fissato per le undici del mattino a Hebron, in Cisgiordania. Devo incontrare un ricercatore dell’ong Btselem e poi fare visita a una famiglia palestinese che ha subìto una violenta incursione dell’esercito israeliano a causa di informazioni false sulla presenza di armi.

Aspetto il ricercatore davanti a una pompa di benzina e noto un gruppo di poliziotti palestinesi. Alcuni sono in borghese, probabilmente agenti dei servizi segreti. Sabato scorso la polizia si era scontrata con gli esponenti di un gruppo fondamentalista. Forse sono lì oggi per far sentire la loro presenza.

Un poliziotto mi nota e mi chiede cosa sto facendo. Rispondo e si avvicinano per farmi qualche altra domanda. Gli racconto la storia della mia vita, quella di una giornalista israeliana che vive tra i palestinesi da prima che alcuni di loro nascessero. Mi sorridono con gentilezza e mi chiedono un documento d’identità. “È per la sua sicurezza”, spiegano. “Vogliamo assicurarci che non le accada niente”. L’agente in borghese fa alcune telefonate e passano quindici minuti. Perdo la pazienza e gli dico che si stanno comportando come gli israeliani. Alla fine mi dicono che non posso entrare. “È un ordine del comandante”, spiegano. Probabilmente l’agente in borghese ha contattato i responsabili palestinesi della sicurezza, che a loro volta hanno contattato le autorità israeliane, che mi hanno impedito di passare. Ma sono entrata lo stesso, da un ingresso secondario.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 4 marzo 2017 a pagina 21 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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