13 marzo 2017 18:03

M. ha saputo della morte di Basel al Araj a Ramallah domenica scorsa. Sapeva delle armi e delle munizioni trovate nell’appartamento circondato e colpito dall’esercito israeliano. Non ha citato il fatto che prima di essere trovato nel suo nascondiglio, il giovane era stato sotto la custodia dell’autorità palestinese. Quello che M. non sapeva è che prima d’incontrarci avevo ricevuto una telefonata da un attivista israeliano che conosceva Al Araj e mi chiedeva di scoprire il luogo in cui gli israeliani stavano tenendo il suo corpo. Ma non ho potuto aiutarlo: in questo momento sono a Berlino.

Anche M. è nella capitale tedesca ed era amico di Al Araj su Facebook. M. è un palestinese che non è mai stato in Palestina. È nato nel campo profughi di Yarmuk, in Siria, in una famiglia costretta a lasciare la Palestina nel 1948. Ora è profugo per la seconda volta: è arrivato con la moglie e il figlio a Berlino ed è ospite nell’appartamento di una mia amica.

Ho bisogno di parlare ancora a lungo con loro prima di potermi fare un’idea degli orrori che hanno vissuto. Ma mi viene spontanea un’osservazione: l’ambasciata palestinese non gli ha offerto nessun tipo di assistenza? M. e la moglie mi guardano sorpresi. L’ambasciata non è un’opzione per loro, non si aspettano nulla da questa istituzione.

(Traduzione di Francesca Gnetti)

Questa rubrica è stata pubblicata il 10 marzo 2017 a pagina 23 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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