20 marzo 2017 18:02

L’attesa e l’incertezza in tempo reale. Il 15 marzo R, ventenne di Gaza, aspetta di essere ricoverata in un ospedale di Gerusalemme. È a Ramallah da due mesi, dopo la decisione di trasferirla da un ospedale palestinese a uno israeliano. Alle 10.50 il permesso d’uscita non è ancora arrivato. Se non glielo faranno avere prima delle 16, R dovrà aspettare altre due settimane per essere trasferita in Israele. Mi è stato chiesto di accompagnarla da Ramallah a Gerusalemme, e per questo vivo con ansia l’attesa. Solo che io rischio di perdere una giornata di lavoro, lei la vita.

È raro che io chiami le autorità militari israeliane per chiedere un favore personale. In 24 anni sarà successo cinque o sei volte, quasi sempre per questioni urgenti di salute. Ma non ho scelta. Telefono alla portavoce dell’Amministrazione civile israeliana.

Dopo trenta minuti mi richiama: le autorità palestinesi non hanno mai presentato la richiesta di un permesso d’uscita. È vero: nello stesso momento il padre di R scopre che l’impiegato della Striscia di Gaza ha fatto un casino. Ha dimenticato di inviare i documenti, o qualcosa del genere. Il padre di R prende le carte e presenta nuovamente la richiesta.

Sono le 12.11. Richiamo la portavoce, che mi promette di esaminare subito la richiesta. Chiedo di poter ritirare il permesso al suo ufficio per evitare le lunghe code al check-point. Alle 12.52 sto ancora aspettando che il permesso sia pronto.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 17 marzo 2017 a pagina 31 di Internazionale, con il titolo “Perché colorare la storia?”. Compra questo numero| Abbonati

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